Incontro culturale sulla battaglia garibaldina di Vezza d’Oglio del 4 luglio 1866 - Intervento di Marco Vitale
Incontro culturale sulla battaglia garibaldina
di Vezza d’Oglio del 4 luglio 1866
Intervento di Marco Vitale
(Presidente Onorario dell’Associazione Amici del Monumentale di Milano):
L’esercizio della memoria
Con alcuni dei rappresentanti di Vezza d’Oglio ci siamo incontrati il 18 febbraio 2017 al Cimitero Monumentale di Milano, in occasione dello svelamento della bella tomba monumentale del Maggiore Nicostrato Castellini. Nato a Rezzato (BS), garibaldino, valoroso soldato, comandante del secondo battaglione bersaglieri volontari, impegnato e caduto nella battaglia di Vezza d’Oglio del 4 luglio 1866. Oggi riposa al Cimitero Monumentale di Milano in una delle prime tombe monumentali di questo cimitero colmo di testimonianze storiche della nostra Regione. La bella tomba era in sofferenza per i segni del tempo, ed è stata recentemente restaurata, a cura degli Amici del Monumentale di Milano, e grazie a generose donazioni di artisti contemporanei, di eredi di importanti scultori e di tanti “piccoli ma graditissimi mecenati”.
Nel corso della cerimonia di svelamento della tomba restaurata, osservavo i presenti e riflettevo sui motivi che ci avevano condotto alla tomba del valoroso garibaldino, caduto a Vezza d’Oglio 151 anni prima. C’erano i rappresentanti di Vezza d’Oglio, una cittadina che, giustamente, dedica molta attenzione agli eventi di quella importante battaglia ed in particolare ai garibaldini che furono tra i principali protagonisti; c’erano gli eredi della famiglia del maggiore Castellini mossi dal ricordo e dal giusto orgoglio per il loro avo; c’era la presidente degli Amici del Monumentale, Carla De Bernardi, il presidente onorario dello stesso e altri amici del Monumentale, attratti dalla soddisfazione di vedere restituita alla bellezza originaria una tomba monumentale, opera d’arte di valore, che ricorda un personaggio di valore, caduto su un campo del nostro Risorgimento; c’erano altri interessati sul piano artistico, storico o umano.
Ognuno di noi era stato portato lì da una sua personale e diversa motivazione. Ma tutti insieme stavano esercitando un rito comune che ci univa: l’esercizio della memoria. L’esercizio della memoria è fondamentale per l’uomo, per il processo di civilizzazione, per la vita e lo sviluppo delle comunità, per la ricerca della propria identità individuale e collettiva.
La memoria è comunque e sempre elemento costitutivo di ciò che siamo oggi e di ciò che possiamo essere domani. Noi siamo sempre esseri in formazione, come individui e come comunità, e ogni giorno la memoria ci porta nuovi elementi della nostra formazione, sia quando ci ricorda eventi positivi che negativi. La morte di Nicostrato Castellini è memoria di un evento doloroso e cruento, la morte in battaglia di un giovane ufficiale di 35 anni coraggioso e un po’ spavaldo. Ma dopo 151 anni la memoria di quell’evento si trasforma in memoria positiva, perché ci ricorda e testimonia il coraggio dei giovani che si batterono per il nostro Risorgimento (un sentimento simile ho provato osservando i cippi dei caduti nella cruentissima battaglia di San Martino e Solferino nella II guerra d’Indipendenza, che ci documentano quanti giovani provenienti da tutta Italia caddero quel giorno), ci evoca la grandezza dell’epopea garibaldina, ci ricorda il bene grande che rappresenta oggi la pace sulle nostre montagne, che furono, sino a tempi non lontani, luogo di lotte sanguinose, dolorose e di fatiche immense e che ci permette di sperare che quei tempi non torneranno più, almeno sulle nostre montagne. Anche la memoria dei campi di concentramento nazisti è memoria dolorosissima, ma è memoria fondamentale che ci aiuta a conservarci uomini, proprio attraverso la consapevolezza di quella pagina orrenda della storia umana. E lo stesso vale per la memoria di Falcone e dei suoi, vittime di un atto di terrorismo, che ha aiutato parte della Sicilia, a ripensare la sua identità e le sue viltà, e a ribellarsi alla violenza e alla corruzione come modi di governo e di vita.
Voi sapete che la Costituzione italiana è stata la prima costituzione al mondo, ed a lungo è stata l’unica, che ha dato, con l’articolo 9, rilievo costituzionale al rapporto privilegiato che il nostro Paese ha con il proprio passato culturale: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Ma, è stato giustamente osservato, che la lettura di questo articolo come semplice strumento di tutela del paesaggio e del patrimonio artistico è incompleta ([1]). L’articolo va letto nella sua completezza, che dice: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Dunque la tutela di cui parla la seconda parte dell’articolo è strumento per “promuovere lo sviluppo della cultura” cioè il processo di civilizzazione del popolo. Questo è l’obiettivo, non la semplice tutela, come scrive magistralmente Maurizio Bettini:
“Non può esistere infatti conservazione senza memoria: i monumenti e le opere d’arte muoiono se le generazioni ne ignorano il contesto e il significato, così come le ragioni che li hanno prodotti e la cultura che nel tempo da essi è scaturita. Sarebbe come esporre i Buri o Narciso in una stanza completamente buia. Si avrebbe un bel dire che i dipinti di Caravaggio sprigionano luce propria, al buio ne emanerebbero comunque ben poca. L’impegno che, come sancito dall’articolo 9 della Costituzione, la Repubblica contrae con il patrimonio storico e artistico della Nazione non può riguardare solo la tutela materiale dei monumenti, ma anche (e forse soprattutto) la memoria culturale che a tali monumenti si lega presso i cittadini: la luce necessaria perché essi risultino visibili…. Di questo almeno possiamo essere certi: qualsiasi forma di memoria culturale è destinata ad affievolirsi, per poi spegnersi del tutto, se il gruppo che la possiede non la mantiene viva nel tempo attraverso la pratica, la trasmissione e l’insegnamento dei suoi contenuti. Così come il ricordo individuale è sempre insidiato dalla dimenticanza, allo stesso modo la memoria culturale è perennemente soggetta a ribaltarsi in oblio culturale: e questo può accadere anche nel corso di poche generazioni, se non di pochi decenni. La persistenza di qualsiasi “tradizione” non deriva tanto dal fatto che essa viene dal passato del gruppo – quasi possedesse un’intrinseca tenacità – come normalmente si crede o ci viene detto, ma dal fatto che si continua a diffonderne i contenuti nel presente. Nella versione semplificata di questo concetto, una “tradizione” viene ritenuta tanto più solida quando più è antica. Non è esattamente così. Una tradizione è tanto più solida quanto più lo è l’intelaiatura che la sostiene nel presente – cioè quanto più si continua a insegnarne i contenuti e spiegarne il senso”.
Già Ovidio dei Fasti, nel grande poema sulla “memoria culturale” dei Romani diceva: “Laudamus vetere, sed nostri utimur annus” (laudiamo il tempo passato, ma viviamo il nostro). Ma “a cosa serve?” la memoria culturale, molti si domandano. Semplicemente a vivere, ad essere partecipi del nostro tempo, ad essere uomini consapevoli del nostro tempo, e non automi manipolati da forze oscure che tendono sempre a cancellare la memoria del passato. Il potere ci vuole senza memoria, senza identità, senza passato. Perché così devono essere gli schiavi. Non è strano che tutti i totalitarismi cerchino sempre di cancellare la memoria civile o di riscriverla a loro uso e consumo, come fece il fascismo con il ricordo strumentale, retorico e falso del retaggio dell’impero romano. La nostra epoca che conosce forme di totalitarismo più mascherate e subdole dei totalitarismi militari del ‘900, tende a distruggere la memoria civile con l’uso di due strumenti di asservimento formidabili.
Il primo è l’economicismo esasperato, riassunto nella frase “ma a cosa serve?” A cosa serve il Museo Garibaldino di Vezza d’Oglio? A cosa serve il commovente piccolo Museo degli Spazzacamini a Santa Maria Maggiore in Val Vigezzo, che ci racconta una epopea del lavoro minorile vissuta, in tutta Europa, dai bambini dei nostri monti? A cosa serve il bigliettino, in quel museo, di un bimbo di dieci anni che scrive alla mamma: “mamma, meglio morto che diventare spazzacamino?” A cosa serve il piccolo delizioso museo di Mazara del Vallo che ospita una delle più belle sculture di bronzo dell’antichità greca, il Satiro danzante, ripescato da un peschereccio di Mazara, che le “autorità” volevano destinare al grande museo archeologico di Palermo e, giustamente, la popolazione di Mazara si è battuta per tenerlo dove è stato ripescato, dove aiuta a capire tante cose delle rotte e delle attività di quel tempo antico? A cosa serve l’angolo del museo civico di Lucerna che testimonia il contributo del lavoro italiano allo sviluppo della città, con un bigliettino scritto a mano in tedesco che dice: “senza il lavoro dei “muratori” italiani (unica parola in italiano) Lucerna non sarebbe quella che è oggi? La risposta a queste e simili domande è semplice e diretta: serve semplicemente ad essere uomini e donne civilizzati.
Il secondo strumento di asservimento è più complesso, anche perché è di portata internazionale. E’ in atto, secondo molti storici, un vero e proprio “ostracismo della nostra cultura nei confronti della storia ( a proposito della quale si può leggere un interessante libro di Francesco Germinario, appena uscito: “Un mondo senza storia? Asterios)” Ernesto Galli della Loggia. È una triste verità della quale io porto conferma per le scuole di economia aziendale: nella maggior parte di queste scuole la componente storica è stata cancellata, ma ciò vale anche per la storia economica in generale. Si tratta di un trend negativo e pericoloso, se non di una vera e propria tragedia culturale, al quale possiamo solo contrapporre dei segnali contrari che non provengono dalla cultura e dalla scuola ufficiale, ma dal basso. Limitatamente alla mia esperienza personale non ho mai sperimentato tanto interesse come oggi per personaggi storici di grande rilievo che la cultura ufficiale aveva condannato all’ostracismo, come Adriano e Camillo Olivetti, Luigi Sturzo, Carlo Cattaneo, che considero i miei principali maestri. Non ho mai visto tante aziende interessate a far riordinare professionalmente i loro archivi, a scrivere e documentare la loro storia, non come fatto puramente personale, ma collettivo. Non ho mai ricevuto tanti inviti a partecipare a incontri culturali da comunità minori, incardinate su piccoli musei e biblioteche o altre testimonianze del passato della comunità, alla ricerca della propria identità. Puntiamo dunque su questa “contro cultura” dal basso, che è tipica dei grandi periodi di passaggio, nei quali la cultura ufficiale prosegue lungo la via dei suoi paradigmi al servizio del potere, mentre la società del vivere cerca nuove strade, nuove direzioni di marcia e, per questo, si interroga, con rinnovata ansia, anche sul proprio passato per cercare di creare un nuovo futuro. È già successo. Contemporaneamente alla nascita della nuova vita nei primi comuni italiani, le prime scuole riscoprono il diritto romano, che introdusse nella cultura ufficiale quella distinzione tra visione religiosa e teocratica e visione laica, che è alla base dello sviluppo civile ed economico europeo. È successo con il primo umanesimo, anzi con il petrarchismo che, animando la ricerca e la riscoperta dei classici, apre la strada al futuro, alle innovazioni di pensiero che sfociano nel Rinascimento. Ha ragione, quindi, ancora una volta Bettini quando scrive: “la civiltà infatti è prima di tutto una questione di pazienza”.
Lo so che è difficile fare questi discorsi in un Paese che, negli ultimi venti anni, ha avuto un presidente del Consiglio che parlava di “Romolo e Remolo”, un ministro del Tesoro che affermava pubblicamente che “con la cultura non si mangia”, un Ministro dell’Istruzione che, mentre demoliva, con le sue riforme, l’Università, affermava l’esistenza di un tunnel che univa il laboratorio sotto il Gran Sasso con il Cern di Ginevra; un ex ministro e senatore, come Umberto Bossi che, in Piazza Montecitorio, si scambiava con il sindaco di Roma (tale Gianni Alemanno), come testimonianza delle reciproche “identità culturali”, l’un l’altro polenta e coda alla vaccinara (esempi tutti di Bettini, nel libro citato). È, dunque, proprio vero che la cultura è soprattutto un esercizio di pazienza. Questo esercizio può essere facilitato dall’impostazione che Giuseppe Prezzolini diede alle sue formidabili lezioni sull’Italia, rivolte ai suoi allievi americani della Columbia University di New York nel 1948([2]). Prezzolini spiega ai suoi allievi americani la necessità di distinguere tra Stato unitario italiano, una, in fondo, piccola e tormentata parentesi della storia italiana e la storia della civiltà italiana che ha mille anni di vita ed ha donato al mondo una “Legacy” formidabile. Essa è sempre viva e fa parte della nostra identità italiana ed europea da San Francesco a Marconi, da Dante a Fermi, dal canto gregoriano a Verdi, da Pico della Mirandoila a Garibaldi, dai giovani eroi del Risorgimento ai giovani eroi della Resistenza. Di questa “Legacy” della civiltà italiana dobbiamo essere consapevoli ed orgogliosi, mentre non possiamo certo essere orgogliosi delle vicende dello Stato italiano.
Questa impostazione, questa memoria non può e non deve diventare una risposta consolatoria alle miserie dell’oggi, ma piuttosto un incitamento a resistere, ad essere pazienti ma determinati e forti, a non lasciarci sopraffare dallo scoramento, a rispondere positivamente alla sfida alla quale la storia stessa ci chiama. Ancora una volta ricorro alle parole di Maurizio Bettini:
“Che lo si voglia o meno, dunque, la vera e propria congiuntura culturale in cui la storia ha gettato gli italiani attribuisce loro una grande responsabilità: verso se stessi, prima di tutto, e verso paesi che, per raggiungere una condizione appena somigliante alla nostra, hanno dovuto impegnarsi e faticare non poco. Ciò detto, davvero possiamo far finta di niente, di fronte a questa straordinaria condizione? Non tenere conto, nei nostri comportamenti individuali ma soprattutto collettivi, di questo privilegio? Come si sa nel passato molti intellettuali – da Giacomo Leopardi a Giulio Bollati – hanno cercato di definire quale sia propriamente la “identità” degli italiani. Interrogativo difficile, che peraltro nel sentire comune suscita risposte disarmate, contraddittorie, veementi, oppure semplicemente spiacevoli. Spinto dalla curiosità, o meglio dal desiderio di vedermi con gli occhi degli altri, mi è capitato a volte di rivolgere questa domanda: “Che cosa è per te l’Italia?” ad amici stranieri, e le risposte sono state diverse. Su un punto comunque esse sembravano concordare, ossia nell’identificare il nostro paese con una specie di luogo magico in cui corruzione politica, delinquenza organizzata, approssimazione e furbizia appaiono riscattati dalla presenza di una tradizione culturale tanto antica, quando indiscussa. Italy, the Land of Culture”.
La storia e la memoria ci devono aiutare ma non illudere. Il presente è molto triste, e siamo nel mezzo di una vera e propria emergenza democratica. La fatica per riscattare lo Stato e ristabilire condizioni civili di convivenza, sarà durissima. Ma abbiamo qualche carta da giocare. Forse ce la possiamo fare. “A da passà a nuttata”. Con l’aiuto della memoria.
Marco Vitale
[1] Maurizio Bettini, A che servono i Greci e i Romani? Einaudi 2017, un libro bellissimo e importantissimo.
[2] Pubblicato nel 1948 in inglese a New York, con il titolo “The Legacy of Italy” dall’editore Vanni. La prima traduzione in italiano e pubblicazione in Italia fu del 1958 dell’editore Vallecchi.