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Don Luigi Sturzo un maestro per l’Italia di oggi e di domani - di Marco Vitale

Il . Inserito in Servire l'Italia

   Nel processo della propria autoformazione, ciascuno finisce per scoprire da sé i suoi maestri. Io ho finito per sceglierne soprattutto tre: Luigi Sturzo, Adriano Olivetti, Carlo Cattaneo. Tre personalità molto diverse tra loro: un grande pensatore e politico; un grande imprenditore; un grande economista-sociologo. Tutti e tre nei decenni scorsi sembravano sempre più accantonati. Ma negli anni più recenti tutti e tre, e soprattutto i primi due, sono stati oggetto di una intensa riscoperta.                    downalod pdf

   Penso che la rinnovata attenzione verso questi grandi spiriti non sia casuale ma esprima il crescente bisogno di riferimenti forti, di maestri, proprio di un’epoca di grande smarrimento, di grandi “rumori”, di grandi e giustificate paure, di assenza di pensiero.

   Se, in questa sede, ci concentriamo sulla persona di Luigi Sturzo, certo scopriremo in lui un vero maestro, non solo del passato, ma per il presente e per il futuro.

   Ma per capirne l’importanza bisogna seguirlo lungo tutta la sua lunga, complessa, tormentata e fertile vita, e non prendere solo alcune fasi della stessa, come molti hanno fatto.

   Luigi Sturzo nasce a Caltagirone (Catania) il 26 novembre 1871 in una famiglia dell’aristocrazia agraria, animata da profonda sensibilità religiosa (una sorella abbracciò la vita monacale e il fratello maggiore Mario fu sacerdote e poi apprezzato vescovo di Piazza Armerina). Diventa sacerdote nel 1894 (23 anni). Nel 1898 si laurea in teologia all’“Università Gregoriana” di Roma.

   Sturzo è tante cose: filosofo, sociologo, profondo economista, amministratore pubblico, politico tra i più importanti del Novecento italiano. Ma è sempre e soprattutto sacerdote: intenso, totale, dedito alla sequela di Cristo e alla rigorosa fedeltà alla Chiesa, anche quando questa lo farà soffrire. Ripercorrerò la sua vita nei suoi momenti fondamentali: l’impegno municipalista (dal 1899 al 1920); Sturzo politico nazionale, fondatore del Partito Popolare con l’appello A tutti gli uomini liberi e forti (1919); l’azione politica a livello nazionale e lo scontro con il fascismo (1920-24); l’esilio (1924-46); l’impegno per la ricostruzione dell’Italia con la lotta contro «le tre male bestie»: partitocrazia, statalismo e sperpero del denaro pubblico (1946-59).

   Sturzo municipalista, con un progetto Era molto giovane l’esile pretino don Luigi quando incominciò la sua azione formidabile di animatore e organizzatore culturale, politico, sociale, economico della sua terra e della sua comunità. Organizzò i cattolici di Caltagirone in un progetto culturale e politico di largo respiro, fece comprendere ai suoi concittadini che il Comune non era proprietà privata dei notabili, ma bene comune, attore dello sviluppo, pilastro del vivere civile.

   Organizzò cooperative rurali e bancarie, creò scuole, fondò giornali, costruì una rete di “complicità” con altri giovani sacerdoti della sua età. È grazie al lavoro formidabile che fece da giovane nella sua terra che emergerà poi come leader nazionale.([1])

   Il giovane Sturzo non si muoveva in una società favorevole, anzi dovette affrontare un mondo terribilmente ostile. Basta un episodio per far luce su questo. Sturzo inizia a interessarsi dei temi della sua città e a preparare il movimento cattolico cittadino nel 1899. Pochi anni prima, nel 1894, il Procuratore della Repubblica di Caltagirone, inaugurando l’anno giudiziario, diceva: «Il saper leggere e scrivere ha dato luogo a molti inconvenienti e, specie nelle contese elettorali, alla rovina delle masse». E nelle sue memorie Giolitti ricorda che da Caltagirone, in quegli stessi anni, venne «la richiesta dell’abolizione dell’istruzione elementare perché i contadini non potessero, leggendo, assorbire idee nuove». Questa è la Caltagirone nella quale il ventottenne pretino inizia il suo apostolato e le sue battaglie, con le quali ha cambiato il mondo chiuso del Comune della sua città, che da feudo di notabili per i propri interessi è stato trasformato da Sturzo e dai suoi in un soggetto fondato su principi, regole, operatività al servizio di tutti, in una vera comunità. Ed è riuscito a fare scuola ben oltre Caltagirone, e ben oltre il suo tempo.

   Don Sturzo dedica a Caltagirone gli anni dal 1899 al 1920, cioè da quando ha 28 anni a quando ne ha quasi 50: la parte centrale della sua vita. E anche tutte le battaglie che verranno poi, che sono “negative” – contro lo statalismo, contro l’accentramento – trovano qui la loro radice positiva.

   Egli parte dal Comune, anche perché i cattolici a quell’epoca avevano il divieto ad interessarsi di politica nazionale, mentre nella politica delle comunità locali il divieto era meno rigido. Da lì parte questo giovane sacerdote, che ha ricevuto il messaggio dell’impegno sociale e politico dall’enciclica Rerum Novarum, che è del 1891. È da questa grande enciclica che riceve la scossa, il messaggio forte che gli fa dire: «Non basta essere sacerdote, voglio essere un sacerdote impegnato per la mia società, per la mia comunità».

   La Rerum Novarum è l’enciclica che spiega con grande chiarezza che prima di tutto viene la persona, la libertà della persona, la dignità della persona, e che per preservare ciò ci sono le società intermedie, che non derivano dallo Stato, perché sono le cellule primordiali della società: la famiglia, il Comune, e da lì via via si sale con il principio di sussidiarietà verso l’“organismo Stato”. L’energia è lì, la libertà è lì, è radicata nelle persone, nella famiglia, nel Comune, che è la prima società. È proprio dal Comune che si deve cominciare a creare una società più democratica, più civile, più partecipata, più coinvolgente, che è poi l’obiettivo unitario della sua vita.

   Esattamente come è oggi, dove solo nel Comune i cittadini trovano spazi di una reale partecipazione.

Inizia a interessarsi ai temi della sua città diventando prima consigliere comunale, all’opposizione, nel 1899. A quell’epoca la città è dominata da due forze politiche: i notabili liberali, che avevano un po’ il dominio in tutta l’Italia, e un movimento radicale più populista che popolare, molto confuso nelle sue idee. Il Comune in quel momento è fondamentalmente uno strumento per realizzare interessi di parte, gli obiettivi della classe dominante, che è convinta di dominare per l’eternità. È contro questo schema che agisce il piccolo, esile prete di Caltagirone.

   Sturzo si muove subito con una grandissima competenza, con una grandissima tenacia, con una grandissima serietà sulle cose.

   Non lascia niente al caso: studia, prepara la sua squadra. Questi cattolici, che si affacciano alla vita politica, sono cattolici che lavorano, ricercano, sviscerano i problemi, guidati da quest’uomo con un talento naturale. Quando si leggono certi documenti di diritto amministrativo e certi documenti di economia e di bilancistica di Sturzo ci si domanda dove abbia imparato tutte queste cose, perché rapidamente mostra, accanto alla passione e alla lucidità politica, una competenza straordinaria! E questa è una delle caratteristiche della sua azione, lì e per sempre.

   Vince perché ha la passione, vince perché ha la lucidità, vince perché è impegnato allo spasimo in quello che fa; ma vince anche perché è bravo: studia i problemi fino in fondo e insegna ai suoi compagni a fare lo stesso.

   I cattolici si preparano duramente all’opposizione per sei anni, dal 1899 al 1905, e si preparano, per la prima volta nella scena politica italiana, portando dei progetti, delle idee, delle prospettive, non dei puri scontri di interesse personale o personalistico a cui era abituata la dialettica politica non solo di Caltagirone.

   Sei anni di preparazione: riflessione su che cos’è il Comune, i principi del Comune, che cosa dobbiamo essere perché il Comune sia una comunità e non sia un aggregato amministrativo al servizio di qualcuno che in quel momento ha semplicemente in mano le leve del potere. Il suo discorso del 1902 è stato giustamente chiamato la “Magna Charta del municipalismo italiano” e se uno lo rilegge oggi ritrova moltissimi pensieri e riflessioni di straordinaria attualità.

   Nel 1905, dopo sei anni di preparazione, don Sturzo vince alla grande le elezioni a Caltagirone e porta i cattolici al comando del suo Comune: 32 consiglieri sono del centro cattolico e 8 sono radicali.

   Don Sturzo ha 34 anni, viene nominato “prosindaco” (perché come sacerdote non poteva essere sindaco, ma di fatto vuol dire sindaco) e rimarrà tale dal 1905 al 1920, donando un impegno straordinario al servizio della sua città.

   Anche negli anni in cui era all’opposizione è sempre stato un consigliere molto costruttivo, non ha mai preso una posizione preconcetta.

   È sempre stato un consigliere molto collaborativo, perché l’obiettivo di governare bene la città era il suo obiettivo centrale.

   Anche come oppositore, dove era necessaria la sua capacità, la sua conoscenza, era pronto a donarle anche ai suoi avversari.

   La sua azione è basata su alcuni concetti fondamentali. Il Comune non è un ente che deriva il suo potere da un atto di decentramento dello Stato; è una comunità primaria, che ha suoi diritti innati, di libertà e di autonomia, che vanno inseriti nel disegno statuale, ma che non sono “concessi”: sono originari. Tante volte si è dibattuto se don Sturzo fosse federalista.

   Non ha mai avuto dubbi su questi punti fondamentali: il Comune non è soltanto un organo amministrativo; è una cellula politica, è una comunità; il Comune, i servizi comunali sono al servizio della comunità; questa comunità non è derivata dallo Stato, ha la sua forza originaria, la sua autonomia, la sua sfera di libertà e di energia che devono essere liberate. Secondo me, questo è il nucleo fondante del pensiero federalista, al di là delle definizioni, e quindi io considero don Sturzo autenticamente e profondamente “federalista”.

   L’altro punto fondamentale di don Sturzo è che non si chiude nel municipalismo autarchico, gretto («penso solo alla mia città»), bensì fin dall’inizio sente la necessità di costruire una rete di contatti e di pensiero – perché egli è anche un grande realista e sa che restando soli si è sconfitti, non si va da nessuna parte. Qui i suoi contatti importanti sono a Milano, dove si stava lavorando seriamente sia sul fronte socialista, sia sul fronte dei murriani della prima Democrazia Cristiana, e ha con entrambi collegamenti e scambi di idee e di collaborazione vivi.

   Ma lavora molto anche nell’Anci, l’“Associazione dei Comuni italiani” creata a Parma nel 1901 dalle forze socialiste. Ecco ancora una prova della sua libertà di pensiero: Sturzo non si domanda se sono socialisti o meno; è un disegno che lui apprezza e dice «dobbiamo esserci» e ci va, in quanto sindaco. Diventerà anche vicepresidente dell’Anci e darà un grande contributo all’associazione nella creazione di un pensiero profondo dei Comuni.

   Sturzo si presenta con un progetto politico molto concreto: uso frequente dei referendum popolari per coinvolgere il più possibile la popolazione, municipalizzazioni (che allora rappresentavano una posizione avanzata), autonomia finanziaria del Comune, recupero dei beni comunali utilizzati abusivamente (gli “usurpi”, come li chiamavano allora). E motiva molto bene la sua azione: questi signori che hanno fatto l’usurpo, «creano il danno degli altri cittadini», non del solo Comune. Il Comune deve evitare che attraverso il Comune alcuni cittadini possano danneggiare altri cittadini, possano derubare altri cittadini. È poi impegnato per la creazione dell’impianto elettrico (allora l’elettricità era alle prime realizzazioni in Italia); per l’acqua potabile, che mancava; per l’istruzione e la formazione nelle scuole civiche. E qui è bellissimo osservare che si ispira a Milano, che fin dal 1860-70 aveva investito nelle scuole civiche.

   La funzione che hanno avuto le scuole civiche a Milano è straordinaria.

   E don Sturzo, questo pretino di Caltagirone, lo sapeva e dice ai suoi: «Dobbiamo fare come Milano!». E fa le scuole civiche, fonda la “Scuola della ceramica” e investe tutto quello che poteva in quella direzione.

   Era quindi una politica delle cose, che però non scadeva mai nella logica della pura amministrazione.

   Faceva politica facendo buona amministrazione. Ma era politica: mai ha pensato che gestire bene un Comune volesse dire non fare politica. Amministrare bene vuol dire fare politica, perché vuol dire impegnarsi per certi rapporti fra i cittadini, per garantire equilibri, equità e per avere un disegno di sviluppo. E per fare le cose bisogna essere molto competenti. E don Sturzo era molto competente.

   Studiava sempre, imparava sempre ed era un mostro di bravura!

   L’autonomia, però, mai don Sturzo l’ha giocata in chiave antinazionale, in chiave antistatale. La sua frase era: l’autonomia municipale è un grande bene, ma non va mai vista come elemento disgregante la compagine nazionale. È un elemento collante. Perché se nelle comunità dei Comuni la gente è forte, è convinta, è unita, se c’è un buon disegno in tutti i Comuni, allora anche il disegno nazionale può venire bene. Altrimenti la disgregazione è nei fatti, prima che nelle volontà.

   Ma soffermiamoci sulle prime cose che fece quando divenne “prosindaco” nel 1905.

   Rinnova completamente il servizio dei vigili urbani. Perché i vigili, giocando in quel clima dove i vertici approfittavano, hanno “approfittato degli approfittatori” ed erano diventati una forza autonoma che gestiva il proprio potere come voleva. Erano «servi che si facevano pagare caro». E quindi don Sturzo licenzia il capo dei vigili, scioglie l’intera forza municipale e la rifonda totalmente, perché dice: «Non riesco a fare un progetto di alcun tipo avendo uno strumento corrotto».

   E così inizia la sua battaglia sulla moralizzazione della macchina amministrativa e della politica comunale, come precondizione: si può fare una politica seria avendo in mano degli strumenti corrotti, rilassati, irresponsabili.

   Il secondo punto è la ricostruzione dell’ufficio tecnico comunale.

   Ancora una volta si trattava di uno strumento, ma aveva già in mente di fare le cose che dirò dopo – gli “usurpi”, le “quotizzazioni” – e diceva: come posso fare queste cose, che sono politica importante, se non ho l’ufficio tecnico comunale che funziona? Da qui il suo grande impegno per la ricostituzione dell’ufficio tecnico comunale, che era sfasciato, quasi non esisteva più.

   Per perseguire due grandi obiettivi. Il recupero degli “usurpi”, come ho detto, dei beni del Comune di cui alcuni privati si erano appropriati a causa della “distrazione”, diciamo così, del Comune; e le “quotizzazioni”.

   Le “quotizzazioni” sono le privatizzazioni. Caltagirone era una cittadina agricola, piuttosto ricca, dove si pagavano pochissime tasse, perché il Comune possedeva seimila ettari; era il più grande proprietario terriero. Questa proprietà si era costituita nei secoli e uno dei motivi più importanti era molto preciso: durante la dominazione mora, gli Arabi non riscuotevano le imposte per persona, riscuotevano le imposte per Comune; arrivavano e dicevano: signor Comune, mi devi dare tanti soldi.

   Se il Comune non aveva le casse pronte, devastavano il paese. E quindi i Comuni si organizzavano ed erano attivi produttori, perché dovevano essere pronti a quelle scadenze fi scali. Il Comune di Caltagirone era ricco di terra e anche di terra molto buona. Tra le sue proprietà c’era un sughereto, probabilmente il più bel sughereto d’Europa, che si chiamava e si chiama tuttora “Santo Pietro”, e risale addirittura ai Normanni: Caltagirone era stata fedele alleata dei Normanni e questi ultimi per premiarla le avevano dato questo grande bosco, poi diventato una meraviglia della natura.

   Don Sturzo è un privatizzatore convinto e inizia la sua battaglia, per quelle che allora si chiamavano le “quotizzazioni”, pensando: ormai gli Arabi non ci sono più, distribuiamo la proprietà fra i contadini, trasformiamoli in proprietari-produttori dividendo tra loro i beni del Comune. Questa politica la sostenevano anche i radicali, quando don Sturzo era all’opposizione.

   Però, mentre i radicali si fecero travolgere dalla demagogia e avevano il piano di distribuire i lotti quanto più piccoli possibile, perché se facevano i lotti piccoli accontentavano più persone, don Sturzo – che aveva lo stesso obiettivo, ma molto più rigore tecnico ed era, misteriosamente, anche un eccellente economista agrario – diede le misure e disse: non si possono fare lotti più piccoli di così, perché altrimenti non c’è rendimento; non si possono fare i lotti senza la casa colonica. Quindi inquadrò con un rigore tecnico la politica della “quotizzazione”.

   Anni e anni di fatiche, beninteso.

   Però don Sturzo ci riuscì, fece queste “quotizzazioni”. Ma si fermò davanti al sughereto. Il sughereto no – disse –. Il sughereto è un bene comune troppo importante.

   Solo come bene comune può essere protetto e può vivere.

   E quindi lui, che era un privatizzatore, lottò per difendere il sughereto come bene comune. Fu questo uno dei motivi per cui, nel 1920, fu attaccato e sconfitto.

   Altro punto fondamentale.

   Don Sturzo diceva: il Comune deve parlare veramente ai suoi cittadini attraverso il suo bilancio. E dedicò moltissimo tempo a rendere comprensibile, leggibile il bilancio, a comunicarlo, ad educare la sua comunità a discutere sul bilancio.

   Anche questa è una cosa dalla quale siamo lontanissimi, perché maggior parte della gente, che prende in mano un bilancio comunale, non ci capisce niente. Il bilancio è una manipolazione, non è una comunicazione. Quindi siamo ancora molto lontani dall’obiettivo che in questo campo aveva raggiunto don Sturzo. E poi la luce elettrica. Anche questo è un episodio pieno di insegnamenti. Una storia che richiese molti anni di lavoro. Inizialmente Sturzo era favorevole a creare l’impianto elettrico come azienda municipalizzata, il che era già un programma molto avanzato – era più o meno quando nasceva l’“Aem” a Milano. Ma poi, quando fu “prosindaco” e fu alla prova concreta dei fatti, con il bilancio, nel 1910, cambiò parere e sviluppò un piano di project financing – allora non si usava questa definizione, ma è la stessa cosa!

   E disse: questa è un’unità produttiva; io, le risorse, che come Comune dovrei mettere lì, preferisco investirle nelle scuole e in tutte le altre cose di cui ho bisogno, dove il project financing non mi può aiutare.

   Invece questa è un’azienda produttiva, che avrà dei ricavi e avrà dei costi, e allora la metto in appalto. La assegnò in appalto e divenne un’azienda autonoma gestita da privati. Per risparmiare risorse del Comune, per altre cose, e anche, diceva, perché «un’officina elettrica è un’industria che per svilupparsi ha bisogno della libera volontà, dell’iniziativa e magari degli ardimenti del privato interessato e non può reggersi se essa deve fondarsi e svolgersi mediante la disposizione della legge comunale e provinciale con tutti gli ostacoli, gli inceppamenti e i vincoli che essa comporta».

   Ma alla fi ne, Sturzo dovette lasciare, dopo quindici anni di impegno e di grandi realizzazioni. Fu sconfitto, fra il 1919 e il 1920, dall’unione della demagogia con la violenza.

   Sono gli anni in cui il movimento fascista si impossessa del nostro Paese e approfitta dei disagi reali per imporre un’occupazione del potere con la violenza di cui anche don Sturzo rimase vittima.

   Tutti gli interessi che lui aveva colpito in quei quindici anni, e soprattutto gli interessi dei “caprari”, che volevano il “sughereto di Santo Pietro” e che lui aveva sempre tenuto fuori dall’uscio, trovano nuova forza, nuove alleanze, e questa alleanza fra i radicali violenti, i “caprari”, si salda con il movimento fascista. Il primo che andò a Caltagirone fu Starace, poco dopo vi arrivò anche Mussolini, in una piazza, si racconta, dove nessuno batteva le mani, perché lui andò per castigare il “prete intrigante” (però la definizione non è di Mussolini, ma di Giolitti). E fu la sconfitta di don Sturzo.

   Ancora una volta appare lo straordinario parallelismo fra Caltagirone e Milano, perché don Sturzo perde le elezioni amministrative del 31 ottobre 1920 e chi conosce la storia di Milano sa che in quello stesso anno i socialisti milanesi cacciarono il loro sindaco Caldara, che era stato un grandissimo sindaco. E viene cacciato dagli stessi socialisti per via di un patto strano che diceva: se i socialisti vinceranno, l’amministrazione del Comune dovrà spettare solo a chi rispetterà il programma massimalista – e Caldara non era un massimalista, era un uomo di responsabilità, come don Sturzo.

   Quindi don Sturzo esce da Caltagirone, e Caldara, grandissimo sindaco milanese, esce da Milano. Ci sono due anni di pena e nel 1922 Caltagirone viene commissariata.

   Il più violento dei radicali viene nominato commissario dal podestà. È la fine del Comune come municipalità autonoma. È lo stesso anno in cui, il 3 agosto, i fascisti, anticipando cose che faranno poi a livello nazionale, occupano “Palazzo Marino”. È una coincidenza straordinaria: finisce questa stagione bellissima, che si chiude con il podestà, e che poi non si è più riaperta, perché subito dopo, finita la guerra, inizia la politica dei partiti. E qui si apre la grande polemica, la grande lotta finale di don Sturzo contro lo statalismo, che non era solo una lotta sul piano dell’economia, ma lo era anche sul piano della morale, delle autonomie, della cultura politica.

Sturzo politico nazionale. L’appello A tutti gli uomini liberi e forti e la creazione del “Partito Popolare”

   La notorietà acquisita con l’azione municipale a Caltagirone e nell’ambito dell’“Anci” e la sua naturale leadership chiamarono Sturzo a svolgere un’azione decisiva nell’organizzare un partito laico dei cattolici a livello nazionale, come sviluppo naturale dell’azione iniziata a livello locale.

   Fu l’appello A tutti gli uomini liberi e forti del 18 gennaio 1919 che segnò la nascita del “Partito Popolare”, di cui egli fu il primo segretario. La finalità era quella di superare la segregazione dei cattolici dalla vita politica del Paese, cosa che lo storico Federico Chabod ha definito uno degli eventi più importanti della storia civile dell’Italia del ’900. Per capire il suo programma è meglio attingere direttamente alla fonte leggendo l’Appello. Sturzo poneva a fondamento di tutta la sua costruzione morale, sociale ed economica il valore assoluto della libertà. Dimensione, questa, che fu ignorata e negata anche dai liberali giolittiani.

   Infatti, dopo il suo ingresso nell’agone politico nazionale, i giolittiani non perdonarono mai a Sturzo il mancato appoggio al loro tentativo di formare un nuovo governo Giolitti. Ma Sturzo aveva capito che il vecchio regime liberale non reggeva più e che bisognava creare una difesa più solida della libertà e della democrazia, coinvolgendo nel governo i nuovi partiti di massa, con logiche e impostazioni nuove. Per i liberali giolittiani egli rimase, dunque, il “prete intrigante” che cercava solo l’accordo con i socialisti di Turati, secondo l’ottusa definizione che di lui diede Giolitti. È questa la chiave che, fi no all’ultimo, ha impedito di capire Sturzo perfino a una persona di grande intelligenza ed esperienza come il giolittiano Indro Montanelli, con il quale discussi personalmente il tema.([2])

   Ben presto la partecipazione politica di Sturzo all’agone nazionale divenne motivo di scontro durissimo – perché di principio – con il fascismo di Mussolini. Mussolini – che se ne intendeva – dichiarò subito Sturzo il suo più grande, vero nemico. Sturzo fu costretto a lasciare la carica di segretario del “Partito Popolare” il 10 luglio 1923. Farinacci lo definì «immondo prete di Caltagirone, reietto della nostra stirpe, fi guro di cui sentiamo rossore per saperlo nato cittadino italiano»; e chiese che lo si obbligasse a svestirsi dell’abito talare. Pio XI fece un discorso nel quale invitò i sacerdoti a limitarsi a esercitare la propria missione nella carità e, in attuazione di tale direttiva, il segretario di Stato inviò a tutti i vescovi una circolare riservata nella quale si invitavano i sacerdoti ad astenersi dalla collaborazione a giornali di qualsiasi colore.

   Sturzo era zittito. La Civiltà Cattolica suggerì addirittura di sconfessare apertamente Sturzo e il “Partito Popolare”. Sturzo ricevette minacce personali. Dal giugno al settembre 1924 egli visse in stato di semi-clandestinità.

   Sturzo fu il più rigoroso tra i cattolici nel sostenere l’inconciliabilità ontologica tra il pensiero cristiano e il fascismo. Sostenne questo con coraggio in tante occasioni e soprattutto nel fondamentale discorso pronunciato al “Congresso del Partito Popolare” tenuto a Torino il 12-14 aprile 1923;3[3] quello che Mussolini definì «il discorso di un nemico». L’odio mortale di Mussolini nei suoi confronti era la prova ulteriore di questa assoluta inconciliabilità. E la Chiesa umiliò Sturzo costringendolo non solo a dare le dimissioni da segretario del “Partito Popolare”, ma a lasciare l’Italia. Il 25 ottobre 1924 Sturzo partì per un esilio che durò 22 anni, fi no al 6 settembre 1946, perché questa era una delle condizioni chiave che Mussolini aveva posto per siglare un patto concordatario con la Chiesa. E Sturzo ubbidì.

L’esilio: dal 1924 al 1946

   Il 25 ottobre 1924 Sturzo partì per l’Inghilterra. Da qui si trasferirà poi negli Usa, per tornare in Italia solo nel ’46. Ha così inizio una nuova fase della sua vita, fatta di ristrettezze e difficoltà, ma tutta dedita allo studio, al pensiero e agli scritti.

   Molti dei suoi lavori più importanti furono elaborati proprio in questo lungo esilio, durante il quale Sturzo crebbe molto sul piano internazionale: nella conoscenza del mondo e dei problemi internazionali, nella sua statura di grande ambasciatore della migliore Italia e di profeta di pace, maturando una nuova visione dell’ordine globale.

   Questi anni, per tanti aspetti così dolorosi, sono quelli che gli permisero di stringere amicizie importanti come quella con un altro esule, il laico e liberale Gaetano Salvemini; e con tanti altri. C’è chi pensa che dobbiamo un po’ di riconoscenza a Mussolini per il fatto che, impedendo a Sturzo l’azione politica in patria, gli permise di approfondire temi di filosofia, di sociologia, di economia e i principi dell’ordine internazionale, che ne hanno fatto un pensatore conosciuto e apprezzato anche internazionalmente.

Il ritorno, la strenua battaglia e il secondo esilio in patria: dal 1946 al 1959

   Al suo ritorno in Italia, nel ’46, Sturzo aveva 75 anni; e molti sperarono che la vecchiaia potesse frenare la sua voce severa. E invece la sua voce risuonò alta, libera e forte, fi no all’8 agosto del 1959, data della sua morte. Lo sperarono anche i suoi amici cofondatori del “Partito Popolare”, che nel frattempo erano confluiti nel nuovo partito della “Democrazia Cristiana” – con la quale, peraltro, Sturzo non si identificò mai.

   Fu questa la sua ultima grande battaglia, quella contro «le tre male bestie», come le chiamava lui: partitocrazia, statalismo e sperpero del denaro pubblico. Ma poiché le tre “bestie” facevano comodo a molti, egli visse quello che è stato giustamente chiamato un secondo esilio, fatto di isolamento e di ignoranza. Da molti fu definito un sorpassato, e invece era semplicemente solo: solo davanti a tutti. Come lo è ancora oggi, davanti a tutti. Per questo la sua voce è ancora così attuale. Come attuali sono l’impegno, la speranza, l’ottimismo che non lo lasceranno mai.

   I temi dello sviluppo italiano ritornarono al centro dei suoi interessi – mentre si avvicinava il tanto desiderato momento del ritorno in patria – e – dopo il ritorno – dal 1946 alla morte. Tra questi, egli riprese i temi dello sviluppo della sua amata Sicilia, dove però non sarebbe mai più ritornato. Sin dall’epoca della sua permanenza negli Stati Uniti, Sturzo si sforzò di promuovere uno statuto regionale che assicurasse alla Sicilia una forte autonomia e, ottenuto questo traguardo, di trovare il modo per garantire un uso retto, serio e produttivo di tale autonomia. Ai democratici cristiani siciliani, che stanno riorganizzando l’azione politica nell’isola, raccomanderà: «Circondatevi di tecnici, di esperti in ogni campo: l’agricoltura, la bonifica, le miniere, la scuola, il credito, la cooperazione, il turismo, i lavori pubblici, la marina mercantile». A tutti i siciliani raccomanda di contare sulle proprie forze, di creare, rifare, riorganizzare tutto localmente, senza aspettare nulla dal centro. Perché al centro i problemi locali venivano visti in modo improprio: burocratizzato e politicizzato.

   Invita la Regione a promuovere l’afflusso di capitali esterni, utili allo sviluppo; ma in primo luogo, egli sostiene, sono i capitali siciliani a doversi muovere.

   Raccomanda una struttura burocratica e una finanza pubblica agile e produttiva. Implora di non scimmiottare la burocrazia romana; e invita la Regione a non inventare le “sue” partecipazioni statali!

   Sollecita l’impegno per l’industrializzazione, che non deve essere fatta, però, di cattedrali nel deserto; né va sviluppata a detrimento dei beni e delle esigenze prioritarie della Sicilia, che sono turismo, agricoltura specializzata, foreste, pesca, impianti idroelettrici con connessa utilizzazione di acque irrigue, porti, ferrovie.

   A leggere i suoi scritti di quegli anni, sulla Sicilia e sul Mezzogiorno in generale, si stringe il cuore: perché i siciliani e i meridionalisti in generale hanno fatto esattamente il contrario di quello che Sturzo aveva raccomandato. E immaginare cosa sarebbero oggi la Sicilia e il Meridione se gli abitanti di queste terre avessero seguito gli indirizzi di Luigi Sturzo, lascia sgomenti. Sturzo ne è consapevole.

   E soffre. Ma mai perderà la speranza, la volontà di battersi, l’ottimismo della volontà. L’ultimo Appello ai siciliani è del 24 marzo 1959: Sturzo ha ottantasette anni e morirà pochi mesi dopo. È uno scritto importante, vigoroso, tutto proiettato sul futuro. La sua visione della Sicilia e della politica economica siciliana – e meridionale – è cruda e realista. Lo scritto è indirizzato ai siciliani, ma vale, ancora oggi, per tutta l’Italia e anche oltre; se non in tutti i contenuti, certamente per l’approccio e per il metodo. «Così arriviamo al punto principale di questo mio appello ai siciliani: bisogna puntare alla formazione di tecnici, di studiosi, di personale specializzato, costino quel che costino. La Regione, invece di tenere due o tre mila impiegati più o meno senza titolo nei vari dicasteri ed enti, che ha il piacere di creare a getto continuo, ne tenga solo mille, ma contribuisca ad avere mille tecnici di valore, capi azienda specializzati, professori eminenti, esperti di prim’ordine.

   Solo così la Regione vincerebbe la battaglia per oggi e per l’avvenire; sarebbe così benedetta l’autonomia da noi vecchi e dai giovani, i quali ultimi invece di chiedere un posticino nelle banche o fra le guardie carcerarie, sarebbero i “ricercati” delle imprese industriali, agricole e commerciali, nazionali ed estere. Scuole serie, scuole importanti; scuole numerose, scuole che insegnano anche senza dare diplomi, al posto di scuole che danno diplomi e certificati fasulli a ragazzi senza cultura».

   Il discorso vale certamente per la Sicilia e per tutto il Meridione.

   Ma questa battaglia per lo sviluppo del Meridione degli anni ’50 era tutt’uno con la sua ultima, dura battaglia a livello nazionale, finalizzata a evitare che l’intera economia italiana venisse sopraffatta dallo statalismo e dall’affarismo.

   È questa la battaglia che ha indotto molti a relegarlo in una posizione di vecchio conservatore, ultra-liberista, alimentando nei governanti democristiani del tempo – i post-degasperiani, quelli che porteranno il Paese e la stessa “Democrazia Cristiana” alla rovina – una ostilità tenace contro di lui che non si è mai spenta del tutto, tanto che ancora oggi i più longevi di loro continuano a vomitare veleno sul più grande pensatore e politico cattolico del ’900.

   Sono le radici profonde del pensiero economico di Sturzo e del suo concetto di sviluppo che nel corso degli anni ’50 lo portarono a condurre la sua ultima, disperata, solitaria, eroica battaglia contro lo statalismo nell’economia e contro l’inevitabile affarismo nello statalismo. Sturzo non è un vecchio liberista al servizio di forze conservatrici, come allora lo classificarono quelli che diventeranno i distruttori della Dc. È un uomo di pensiero che conosce la storia dell’uomo ed è ancorato a un sistema di valori eterni, radicati nei principi della verità e della libertà.

   È lo stesso pretino che, a trent’anni, combatté la dura battaglia per liberare il suo Comune dagli intrecci politico-affaristici al fi ne di realizzare la vendita dei latifondi comunali.

   È lo stesso uomo che, a ottant’anni, si ritrova a combattere la stessa battaglia, su base nazionale, contro il nuovo intreccio politico-affaristico che porterà il Paese alle tragedie degli anni ’70 e ’80: inflazione, terrorismo, recessione.

   Sturzo rivendicò sempre l’unitarietà della sua linea: prima del ’19 e dopo il ’19; prima del ’24 e dopo il ’24; prima del ’46 e dopo il ’46. È sempre lo stesso Sturzo, nei principi di fondo. E chi conosce il suo pensiero non può non riconoscere questa continuità ed universalità, proprio perché il suo è un pensiero radicato in un sistema di principi universali tra loro collegati: verità, libertà, unitarietà della libertà (perché non può esistere libertà politica e civile senza libertà economica), la persona umana al centro dello sviluppo, il principio di sussidiarietà.

   Già Guicciardini aveva detto: «Quanto uno privato erra verso el principe e committe crimen laese maiestatis, volendo fare quello che appartiene al principe, tanto erra uno principe e committe crimen laesi populi, faccendo quello che appartiene a fare al popolo e a’ privati; però merita grandissima riprensione el Duca di Ferrara faccendo mercatantia, monopoli e altre cose meccaniche che aspettano a fare a’ privati».

   La strenua e isolata battaglia di Sturzo negli anni ’50 non è dunque un servizio all’ultra-liberismo, ma è un grido contro il crimen laesi populi: è una battaglia universale.

Certo egli vede cose che altri non vedono ancora. Egli, come è tipico degli uomini speciali, dei profeti, vede le cose prima che diventino visibili a tutti. Vede i primi, deboli segnali di pericolo e grida: allerta! Ma gli uomini hanno bisogno che la casa bruci prima di accorgersi del pericolo. Ed alcuni non se ne accorgono neanche dopo che la casa è bruciata.

   Sturzo rappresenta una vetta del pensiero economico cattolico e liberale. Moltissime delle sue indicazioni, rilette oggi, appaiono veramente profetiche. Il suo pensiero si inserisce nel grande filone centrale del pensiero laico occidentale, illuminato dal principio di libertà.

   Ma al contempo è straordinariamente coerente con il pensiero della dottrina sociale della Chiesa.

   Muore Sturzo e la giornalista Gianna Preda, che non aveva un particolare feeling con Sturzo, ma che era una giornalista brava e libera, scrive: «Muore Sturzo, e la Dc, salvo poche eccezioni è in festa». Il giorno del funerale, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi preferì andare al mare e Amintore Fanfani non si fece vedere e Gianna Preda trova che questa «sia almeno una prova di sincerità».([4])

Il pensiero di Sturzo e l’attuale crisi economica internazionale.

   Mi sono chiesto in che modo il pensiero di Sturzo ci può aiutare a orientarci nella grande crisi del nostro tempo. Innanzitutto il suo pensiero ci aiuta a distinguere tra – da un lato – un sistema economico di libero mercato basato sull’impresa dove l’homo faber può esprimere la sua azione creatrice quale coadiutore di Dio nel disegno di sviluppo, e dove al centro c’è l’antico principio: omnium rerum mensura homo; e – dall’altro – un sistema dove al centro c’è il return on investment, dove l’obiettivo è la logica finanziaria che tutto distrugge e tutto soffoca. Fiat capital gain et pereat omnia è il principio che ha dominato e ancora domina il pensiero e l’azione economica contemporanea. Il pensiero di Sturzo ci insegna che è perverso confondere e far coincidere questo orrendo “super-capitalismo” con una libera economia di mercato e imprenditoriale. Il pensiero di Sturzo ci aiuta a snidare gli imbroglioni che alimentano questa confusione, questa grande truffa morale e intellettuale. II pensiero di Sturzo ci aiuta a capire che questa crisi è come un grande urlo contro una concezione economica che non è libera, ma è basata su poteri economici superconcentrati, superpotenti, manipolatori della libertà e dell’attività propria dell’homo faber.

   Ma è soprattutto un passaggio della Centesimus Annus che rappresenta una perfetta sintesi del pensiero di Sturzo applicato alla realtà attuale: «42. Ritornando ora alla domanda iniziale, si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro autonomia e la loro società? È forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile? La risposta è ovviamente complessa. Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa” e di “economia libera”. Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa».

   Sturzo è, come sempre, dalla parte dell’economia d’impresa e dell’economia libera, non dalla parte dell’ultra-capitalismo, cioè del Fiat capital gain et pereat omnia.

   Il travaglio che stiamo vivendo è un tormentato processo per passare (anzi tornare) dall’ultracapitalismo a un’economia libera e umana, cioè a un’economia imprenditoriale e responsabile. Il pensiero di Sturzo è fondamentale per aiutarci in questo passaggio.

   Ma cosa dice Sturzo più specificatamente ai giovani d’oggi?

   Poche cose semplici ma fondamentali.

   Dice: – dovete prendere in mano il vostro destino. Il vostro futuro lo dovete forgiare voi stessi. Non aspettatevi niente dallo Stato o da altre entità lontane e astratte, o da caricature grottesche dello Stato, come le Regioni. Forgiate il vostro futuro non da soli ma con l’aiuto di chi può e vuole aiutarvi.

   Con l’aiuto dei grandi maestri scomparsi, ma che vivono tra noi con il loro esempio e i loro insegnamenti.

   Come Sturzo; – non dovete mai scoraggiarvi.

   Non c’è problema che non possa essere risolto. Non c’è debolezza non possa essere superata.

   Diventate duri, testardi, indignati.

   Ma non scoraggiatevi, mai. Abbiate fiducia in voi stessi. Come fece Sturzo; – ma dovete essere molto preparati.

   Il nostro mondo così complesso richiede sempre più conoscenza, competenza, volontà consapevole, preparazione. Vogliate bene a voi stessi. Non buttate via il vostro tempo, come Seneca raccomandava nelle Lettere a Lucilio: la vita è lunga, diceva Seneca, siamo noi che la rendiamo breve dedicando troppo tempo a cose inutili. Siate coraggiosi. Non abbiate paura del potere, non barattate mai la vostra dignità per un piatto di lenticchie.

   Don Sturzo ha dovuto subire tante umiliazioni, soprattutto dalla sua Chiesa, ma lo ha fatto sempre senza barattare la sua dignità, ha piegato la testa quando ha dovuto, in segno di obbedienza, ma non ha mai piegato la schiena, non ha mai rinunciato ai suoi principi, che erano poi i principi cristiani.

   A me sembra che queste siano le cose essenziali che Sturzo dice ai giovani d’oggi e sulle quali essi debbono, nel loro stesso interesse, riflettere seriamente e imparare.


(1] Solo in tempi relativamente recenti un bravo studioso come Umberto Chiaramonte ha fatto conoscere in tutta la sua importanza questa fase della vita di Sturzo, con due libri importanti. Il Municipalismo di Luigi Sturzo (Morcelliana 1992) e Luigi Sturzo nell’Anci (Rubbettino 2004). Prima di lui solo Mario Ferrara, giornalista e scrittore politico, laico e liberale, illustrò l’importanza di Sturzo municipalista in un bellissimo profilo di Sturzo scritto nel 1925, la prima biografi a del sacerdote, molto opportunamente ristampata nel 2016 dal “Centro Studi Cammarata” (San Cataldo, Caltanissetta).

(2) Ma quando Sturzo morì, Montanelli gli dedicò sull’Europeo del 23 agosto 1959 un bellissimo ricordo dove dimostrava che aveva ben capito la grandezza della persona.

(3) Dieci anni dopo sarà il pastore luterano, il giovane teologo Dietrich Bonhoeffer, a conclamare l’assoluta inconciliabilità tra principi cristiani e nazismo, iniziando a subire l’isolamento e l’esclusione da ogni attività sino al carcere e all’assassinio nel 1945.

(4) Traggo queste notizie dall’interessantissimo libro di Alberto MAZZUCA Penne al vetriolo. I grandi giornalisti raccontano la prima Repubblica, Edizioni Minerva, 2017.