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Articoli e discorsi


MEIC MOVIMENTO ECCLESIALE DI IMPEGNO CULTURALE DIOCESI DI BIELLA

Il . Inserito in Servire l'Italia

INTERVENTO DI MARCO VITALE

SU IMPRESA E BENE COMUNE

(Biella, 13 aprile 2018)

Nell'ambito del ciclo di incontri su Bene Comune

“Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco essi sanno che cosa ho detto”. Aveva appena detto questo che, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù”

Vangelo secondo Giovanni 18.22 “Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario”

"Nel tempo dell'inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario"

George Orwell

“Si può quindi essere ben ricchi per cumulazione di molti beni, ma senza essere civili”

Lodovico Bianchini, economista napoletano, 1855

Possiamo avere la democrazia o possiamo avere la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe.

Louis Brandeis (grande giurista ed economista americano della prima metà del ‘900. Consulente dei presidenti Wilson e Roosevelt e giudice della Corte Suprema)

A un anno dalla morte dell’imprenditore Michele Ferrerò 38 paesi delle Langhe dopoAlba

hanno dedicato allo stesso una targa, strade e piazze. “Nel pensiero di Michele non nasceva mai un progetto, anche grande, se al centro non c’erano il rispetto e la possibilità per l’uomo di progredire. Mio marito poneva al centro di tutto l’interesse per gli altri. E non solo parlando dell’interesse economico, ma del

prendersi cura delle persone” Maria Franca, vedova di Michele Ferrerò

Le radici

L’affascinante inquadramento filosofico del tema fatto da Giannino Piana, ci ha fatte comprendere come trattare il tema del bene comune sia un esercizio di grande complessità, sia che lo si affronti da un punto di vista generale filosofico, sia che lo si affronti da un punte di vista più specifico e limitato come quello socio-economico, come farò io. Tante complessità e difficoltà non deve stupirci. La tematica del bene comune, infatti, si pone all’incrocio tra individualismo e comunitarismo, tra volontà di dominio dell’individuo e: principi di convivenza in una comunità. E questo incontro - scontro scatena mille cortocircuiti, con scintille, fulmini, saette, feriti e morti.

Si tratta di un incontro-scontro proprio di ogni civiltà, e di ogni cultura, come ci ha dette Giannino Piana. Pensiamo al Confucianesimo e alla filosofia cinese Taoista, colmi di temi propri di questa problematica. Ma Piana, saggiamente, ci ha suggerito di limitarci alle nostre radici dirette, proprie del pensiero occidentale e soprattutto al pensiero greco.

Anche io farò qualche riferimento al pensiero greco, perché ciò mi sarà utile per dei precisi riferimenti a valutazioni contemporanee. Più specificamente il mio riferimento è al periodo aureo della cultura ateniese. (1)

Pensiamo a Socrate, “colui che sicuramente preferisce affrontare la morte piuttosto che rinunciare a dire il vero; colui che mette in pratica questo dire il vero ed esprime il suo pensiero senza nascondimenti, non alla tribuna, nell’Assemblea o davanti al popolo(2). Socrate è l’esempio più illustre di parresiasta, cioè colui che pratica la “parrésia”, che è il coraggio di dire l’intera verità su fatti che interessano la comunità. La parrésia è in realtà nella cultura ateniese anche un diritto che va difeso ad ogni costo, perché è proprio ciò che fa di un individuo un libero cittadino, perché la città ha bisogno della verità per esistere. La teoria e la pratica della parrésia è estremamente complessa e Michael Foucault, nel suo citato testo, ci accompagna nelle profondità di questa affascinante complessità. Ma il punto centrale, ai nostri fini, è proprio questo dovere-diritto di dire con coraggio la verità. Il contrasto con il nostro tempo, il tempo che pratica e teorizza le “fake news” è drammatico. Dicono professionalmente il falso non solo i politici partitanti per rincorrere una elezione, non solo i giornali - partito o i giornalisti asserviti a questo o quel padrone, ma i governi, gli enti di ricerca e di gestione dei dati e, negli ultimi anni, quel baluardo di serietà, verità e indipendenza, cioè di parrésia, che era, una volta, la Banca d’Italia, ormai caduta anch’essa nel grande e variegato mondo dei cantastorie. È la mancanza di parrésia la malattia più grave della nostra società sia internazionale che del nostro paese.

Ma pensiamo anche a Pericle ed alla relativamente breve stagione della democrazia ateniese (3). Penso in particolare al formidabile discorso che Pericle pronunciò in occasione dei funerali pubblici per i caduti del primo anno della guerra del Peloponnese. Era tradizione che il popolo eleggesse, per l’occasione, un cittadino che pronunciasse la commemorazione. Fu eletto Pericle che, secondo la ricostruzione di Tucidide, pronunciò un discorso bellissimo e dal taglio originalissimo. Non iniziò esprimendo, come tutti si aspettavano, un omaggio ai caduti per il loro coraggio e per il loro sacrificio, ma iniziò con un appassionato elogio della democrazia ateniese. Dice Pericle: “comincerò dai nostri antenati”. Perché è a loro che dobbiamo i principi e lo “stile di vita che ci ha permesso di giungere a questi risultati, sul regime politico e sui tratti del carattere che ci hanno condotto a questa potenza. E solo dopo passerò all’elogio dei caduti”. La progressione di Pericle è limpida e coinvolgente. Sia onore ai caduti ma il più grande elogio e apprezzamento sia per Atene e per chi ha costruito la sua eccellenza, la sua potenza, la sua democrazia. Perché è per difendere questo sommo bene comune che i caduti si sono battuti.

Avevo intenzione di riassumere il discorso di Pericle, ma alla fine mi sono arreso. È troppo bello e importante anche per i nostri giorni per sottoporlo ad una manipolazione, come finisce ad essere, necessariamente, anche una sintesi. Perciò lo riproduco in allegato per comodità e spero gioia del lettore, sia per chi non lo conosce che per chi già lo conosce e lo rileggerà con piacere, come è successo a me.

Mi soffermerò qui solo su un passaggio fondamentale per il proseguo del mio ragionamento: “Una stessa persona può curare i propri interessi e nello stesso tempo occuparsi della cosa pubblica. E anche coloro che sono impegnati dal lavoro possono conoscere e valutare gli affari della città in modo non superficiale. Per noi, e siamo gli unici a pensarla così, chi si astiene dalla politica non è un cittadino tranquillo, ma un cittadino inutile. Siamo in grado di giudicare le proposte politiche, anche se non siamo noi a formularle e pensiamo che il dibattito non pregiudichi l’azione; sarebbe un danno, al contrario, non esaminare e non discutere le cose prima di passare all’azione necessaria”.

Dunque, il Bene Comune ad Atene è la democrazia ateniese, e la partecipazione al Bene Comune consiste per il comune cittadino, che cura i suoi affari privati, l’inserire nella sua visione ed azione quotidiana il punto di vista dell’interesse pubblico. Per non essere un “cittadino inutile”.

E adesso facciamo un salto di 2420 anni dal 431 a.C. al 1989 d.C. quando Drucker, a mio giudizio il più grande pensatore dell’impresa contemporanea, scrive queste parole:

“Il problema fondamentale di ogni pluralismo è sempre stato quello di stabilire a chi spetti occuparsi del bene comune. La soluzione tradizionale che risale a centinaia di anni fa, è in realtà un’illusione: il bene comune nascerà dal conflitto degli interessi contrastanti. Ma ciò al massimo genera una situazione di stallo. È necessario, invece, che le istituzioni pluraliste contemplino nella loro visione, nel loro comportamento, e nei loro valori, l’interesse e la responsabilità nei confronti del bene comune(4). E tra le istituzioni pluraliste Drucker comprende ovviamente le imprese.

Spero che la coincidenza del pensiero di Pericle e di Drucker, e dunque la contemporaneità di entrambi, sia evidente. Le verità capaci di confermarsi dopo 2420 anni meritano più attenzione di altre più fugaci. Dunque, il Bene Comune non è un fatto soggettivo. È l’insieme dei valori, principi, obiettivi, regole che reggono e tengono unita una comunità (5). E il contributo dei singoli cittadini al Bene Comune non consiste nell’inventarsi un concetto personale di bene comune ma nell’inserire nella propria attività, qualunque essa sia, la dimensione della responsabilità verso la comunità per non rientrare, nella terminologia di Pericle, tra i “cittadini inutili”. Per gli ateniesi il Bene Comune è la democrazia ateniese come la illustra Pericle. Per noi il nostro bene comune è la nostra Costituzione come scaturisce dopo la grande guerra civile europea durata dal 1914 al 1945. Per i tedeschi è la Costituzione federale nata dalla stessa tragedia europea ed in particolare gli articoli 1 e 20. L’articolo 1 afferma: “La dignità della persona umana è inviolabile. Rispettarla e proteggerla è dovere di ogni potere statuale”. L’art. 20 statuisce: “La repubblica federale tedesca è uno stato democratico e sociale”. Questi due articoli contengo l’essenza del bene comune per la comunità tedesca: inviolabilità della persona, repubblica, forma statuale federale, stato di diritto, stato sociale. L’importanza di questi pilastri è assoluta. Questi due articoli, infatti, non possono essere modificati da nessuna maggioranza parlamentare (c.d. garanzia dell’eternità). Per essere modificati deve cadere e cambiare la comunità tedesca.

Impresa e bene comune

Ma ricollegarci all’esperienza ateniese è utile anche dal punto di vista più ristretto della teoria d’impresa e del rapporto impresa - bene comune, sul quale mi cimenterò in questa parte del mio intervento. La letteratura greca contiene infatti un libro molto importante per la teoria dell’impresa e la sua collocazione nella società. Si tratta dell’Economico di Senofonte (6). È un libro poco noto e non sempre correttamente studiato.

Infatti, lo hanno letto i filosofi e lo hanno considerato, giustamente, come libro di filosofia, un libro minore. Lo hanno letto anche i letterati che hanno, giustamente, decretato che come testo letterario non è un gran che. Lo hanno letto gli economisti generali che hanno detto che il suo contributo all’economia era modesto, ed anche questo era un giudizio corretto. Lo hanno letto gli esperti di agraria e hanno detto, giustamente, che come libro di agraria non è significativo. Ma erano tutti giudizi di studiosi che non conoscevano la materia trattata nel libro. Infatti, questo libro non è un libro di filosofia né di letteratura, né di economia, né di agraria (7). È il primo libro di teoria d’impresa, il primo libro di management della cultura occidentale, e sotto questo profilo ha una grande importanza (8).

Il centro dell’opera di Senofonte è un incontro tra Socrate e Iscomaco un giovane brillante imprenditore, a capo di un’azienda agricola ma anche cittadino attivo e attento alle cose della città. Iscomaco è sempre in movimento sui suoi campi, al mercato, nell’agorà della città, a sorvegliare, incitare, guidare, contribuire. Socrate vuole capire le ragioni del suo successo nelle sue molteplici attività economiche e civiche. Ciò è possibile perché entrambe le componenti del suo Oikon, la casa (centro di consumo) e l’impresa agricola (centro di produzione), sono ben presidiate e organizzate secondo principi, in parte, comuni.

Socrate è ansioso di conoscere le tecniche dell’agricoltura, ma Iscomaco incomincia da ben altre cose. Il suo pensiero si articola secondo la seguente progressione:

1.  «Gli dei non hanno reso lecito per un uomo di avere prosperità se non sa quello che vuole e non si sforza di compierlo». Quindi, in primo luogo, chiarezza strategica (sapere quello che si vuole) e will to manage (sforzarsi di farlo). Allora come ora.

2.  «Arrivato in campagna, metti che stiano piantando o lavorando il maggese o seminando o riportando al riparo il raccolto, io controllo come avviene ogni cosa e li correggo se conosco un procedimento migliore di quello che fanno». Dunque, al secondo posto, profondo, intenso, competente coinvolgimento personale del capo.

3.  Ma poiché l’imprenditore è chiamato a tanti altri compiti e responsabilità, il terzo punto fondamentale è avere dei buoni manager: «Tuttavia non trascuro le cose che tu dici, o Socrate, dato che ho dei sovraintendenti nei miei campi».

4.  E ciò apre il problema della selezione, della comunicazione interna, della motivazione, dei premi e punizioni, del learning by doing, della funzione dell’esempio. Credo che molti imprenditori e molti responsabili del personale contemporanei potrebbero trarre giovamento da una riflessione sulle idee di Iscomaco su questi temi in materia di relazioni industriali.

E la lealtà come si insegna? Chiede Socrate.

-   «dando con generosità, per Zeus, disse Iscomaco, quando gli dei ci concedono in abbondanza qualche bene» (partecipazione in funzione dei risultati, diciamo noi) («questo strumento è il migliore che io veda per generare lealtà»). Ma non basta. Ci vuole anche:

-   una piena e aperta comunicazione interna («Infatti chi deve essere in grado, quando me ne vado, di amministrare al posto mio, non deve conoscere esattamente le cose che conosco io?»);

-   una motivazione basata non solo sulla ricompensa pecuniaria («Quando vedo che si prendono cura delle cose li lodo» […] infatti quelli che sono ambiziosi sono stimolati dalle lodi;

-   l’esempio («quando il padrone dà esempio di trascuratezza è difficile che il dipendente diventi diligente […]. Chi vuole far diventare diligente qualcuno deve essere lui stesso capace di sorvegliare le attività e ispezionarle, premiare volentieri l’autore di una cosa ben fatta, non esitare a infliggere la pena appropriata a chi è negligente»);

-   ma al sovrintendente non va insegnata solo la lealtà e l’impegno sul lavoro. Gli va insegnato anche a tenere lontano le mani, a non rubare. E qui giovano ancora una corretta ricompensa, una severa sanzione, la motivazione della lode individuale. Ma ci vuole qualcosa di più. Ci vuole un sistema che faccia proprie e concretizzi nell’azienda un corretto mix tra le leggi di Dracone («che si limitano a porre punizioni per coloro che cadono in fallo») e quelle di Solone («che non solo puniscono i colpevoli, ma premiano anche i giusti»). Occorre dunque un sistema giusto, «di modo che quando vedono che gli onesti diventano più ricchi dei disonesti, anche molti di quelli che sono avidi di guadagno stanno bene attenti a non commettere disonestà». E un sistema giusto rifugge dall’equalitarismo: «Io infatti, o Socrate, sono assolutamente del parere che è causa di grande scoramento per i bravi quando vedono che sono loro ad aver portato a termine i lavori, e che altri, che non hanno voluto né faticare né correre rischi quando c’era bisogno, ricevono le loro stesse cose». È grazie all’insieme di questi elementi che si crea la corretta motivazione per i sovrintendenti «a faticare quando è necessario, a correre rischi, e a stare lontani da illeciti guadagni».

-   E infine, il sovrintendente deve anche «imparare a comandare. Su questo punto la sicurezza di Iscomaco vacilla («E dunque, dissi, tu insegni ai sovrintendenti anche a essere capaci di comandare?» «Almeno mi ci provo, disse Iscomaco»). Ma è proprio su questo punto che l’attenzione di Socrate si fa incalzante. Vuol sapere quali metodi Iscomaco adotta. Questi si schernisce (i miei metodi sono molto semplici, «tanto che forse ti verrà da ridere ad ascoltarmi»). Ma Socrate non molla, perché ha colto che è qui un passaggio decisivo della teoria del management, un passaggio che la lega a cose più grandi della pura amministrazione della casa: «Non è certo una cosa da ridere, dissi, Iscomaco; chiunque sia capace di insegnare alla gente a essere capace di comandare è chiaro che è capace anche di insegnare alla gente a essere padroni, e chi è capace di insegnare alla gente a essere padroni, sa anche insegnare a essere re. Quindi non mi pare che ci sia da ridere di chi è capace di fare questo […]. Mi pare che un sovrintendente simile abbia grandi meriti».

Solo dopo aver approfondito questi temi di fondo Iscomaco si decide a parlare a Socrate della tecnica dicendogli: “la tecnica è facile da imparare”. Se vuoi imparare a mietere od a potare basta che ti metti dietro un esperto e lo imiti ed in poco tempo imparerai.

Su un altro tema fondamentale, già in precedenza impostato e ripreso come tema di chiusura, Socrate e Iscomaco sono perfettamente d’accordo: la cosa più importante è la capacità di guidare, animare, motivare gli uomini, dare un senso alla loro fatica, in una parola, la leadership. Questa capacità è comune alle attività economiche e alle altre attività dell’uomo e ha qualcosa di prodigioso, che Socrate indica con la parola “divino”. Anche questa capacità si può imparare, ma con un processo di apprendimento ben più lungo e complesso di quello necessario per imparare le tecniche: «A mio parere questa è la cosa più importante in ognuna delle attività umane, e, quindi, anche nell’agricoltura. Tuttavia, per Zeus, io non dico affatto che anche questo si impara osservando o avendolo ascoltato una volta sola, ma affermo che per chi intende riuscire in questo c’è bisogno di educazione, di possedere una buona natura e, cosa più importante di tutte, di diventare divino. Non sono affatto convinto che questo bene, comandare a gente che obbedisca volentieri, sia del tutto cosa umana, ma mi pare divina; chiaramente è data a coloro che veramente sono iniziati alla virtù”.

Soprattutto quattro temi di grande e perenne attualità emergono da questo primo libro di management del mondo occidentale:

-    Il successo dell’impresa richiede una organizzazione efficace, ma anche giusta e coinvolgente, ed il numero uno deve essere esempio, stimolo e guida;

-    La tecnica è importante ma non è il cuore dell’impresa. Il cuore è la strategia: “sapere cosa fare, quando, come”, e la motivazione;

-    L’attività imprenditoriale non si esaurisce nella buona gestione. È necessario cercare terre incolte e valorizzarle, creare così nuovo valore aggiunto, valore che prima non esisteva. In questo modo si può: “insieme provare piacere facendo qualcosa di utile”;

-    Ma per raggiungere la capacità di guidare (“comandare a gente che obbedisca volentieri”) non basta la tecnica, né la buona gestione, né la correttezza personale: “c’è bisogno di educazione, di possedere una buona natura e, cosa più importante di tutte, di diventare divino”. Bisogna dunque elevarsi diventando “iniziati alla virtù”. È su questo punto che la cultura d’impresa deve incrociarsi con altre componenti culturali e religiose, perché è solo attraverso lo scambio di tali componenti che si raggiunge il livello necessario per “comandare a gente che obbedisca volentieri”.

L’impresa come soggetto di sviluppo e il crocicchio

L’impresa, dunque, emerge da questo primo libro di management non come un fatto puramente privato gestito a soli fini privati ma come un soggetto comune che ha il compito sociale di creare sviluppo e di contribuire quindi al Bene Comune. E lasciatemi anche qui gettare un ponte con le parole che Drucker scrisse nel 1954 a conclusione del suo libro più famoso (9):

“L’istruzione intellettuale non sarà sufficiente, da sola, a fornire ad un dirigente i mezzi necessari per far fronte ai compiti che lo attendono nel futuro. Il successo del dirigente di domani sarà sempre più strettamente connesso con la sua integrità morale. Infatti, con l’avvento dell’automazione l’influenza e la portata temporale delle sue decisioni sull’azienda nel suo complesso e rischi connessi saranno talmente gravi da esigere che il dirigente anteponga il bene comune ai suoi stessi interessi. La sua influenza su coloro che lavoreranno con lui in un’azienda sarà così decisiva che il dirigente dovrà basare la sua condotta su rigidi principi morali anziché su espedienti. Le decisioni di un dirigente avranno una portata tale sull’economia che la società stessa lo riterrà responsabile. I compiti nuovi che attendono il dirigente del futuro, esigono che questi fondi ogni sua decisione su solidi principi morali e che la sua guida non sia ispirata solo dalle sue conoscenze specifiche ma anche dalla sua capacità di visione, dal suo coraggio, dal suo senso di responsabilità e dalla sua integrità morale. Indipendentemente dall’istruzione ricevuta da giovane o da adulto, infuturo, come già per il passato, né l’istruzione né l’abilità individuale costituiranno le caratteristiche decisive per un dirigente: egli dovrà possedere soprattutto l’integrità di carattere”.

È già chiaramente leggibile nel dialogo Socrate Iscomaco la concezione dell’impresa come organo dello sviluppo che Drucker, nostro contemporaneo, definirà con queste parole:

“Le imprese sono organi della società. Non sono fine a sé stesse. Ma esistono per svolgere una determinata funzione sociale. Esse sono strumenti per assolvere fin che le trascendono. Sono organi di sviluppo”.

Per chi condivide questa visione dell’impresa responsabile e della sua funzione nella società non esiste conflittualità ma convergenza tra impresa responsabile e bene comune. Io amavo illustrare questo concetto ai miei studenti con l’immagine dell’incontro ad un crocicchio. Un progetto di sviluppo è il risultato di un incontro ad un crocicchio. A questo crocicchio confluiscono tutti e ognuno porta una bisaccia piena dei suoi doni: il religioso, il filosofo, il poeta, l’alpino, il medico, l’ingegnere, l’uomo d’impesa. Al crocicchio ognuno apre la propria bisaccia ed estrae i suoi doni. Se i doni sono genuini e sani lo scambio dei doni sarà proficuo a tutti e si avvierà uno sviluppo comune positivo. Altrimenti ci sarà la rissa e il danno di tutti.

La legittimazione dell’impresa. Dai mercanti italiani alle Riflessioni sull’America di Maritain

È entusiasmante osservare come questa visione positiva dell’homo faber e, dunque, dell’impresa si sviluppi nei secoli, pur tra avanzate e ritirate, con frequenti inabissamenti come un fiume carsico. Certamente una delle epoche più felici e intellettualmente più ricche è proprio quella dello sviluppo dell’imprenditoria italiana del 1300 e 1400 (allora gli imprenditori si chiamavano mercanti), i veri fondatori del capitalismo moderno, con i suoi cantori, come Coluccio Salutati (Firenze, 1313-1406: “Cosa santa è la giustizia, più santa, santissima è la mercatura, senza la quale il mondo non può vivere”, e che della sua meravigliosa Firenze, novella Atene, diceva con orgoglio: “Nos popularis civitates, soli dedita mercatura”. Tra le tante testimonianze di questi secoli magici, trovo ai fini del nostro discorso, di particolare interesse la definizione che Cotrugli, grande imprenditore raguseo, dà della funzione dell’impresa: “Mercatura è arte legiptima, giustamente ordinata, per conservazione de l’humana generazione, con isperanza niente di meno di guadagno(10) . Qui c’è chiarissimo il concetto della legittimazione dell’impresa e del profitto per la sua utilità sociale, per il contributo allo sviluppo (“per conservazione de l’humana generazione”). Ma fu proprio Cotrugli che scrisse anche: “il buon cittadino non nasce dalla mercatura; è piuttosto il buon mercante che nasce dal buon cittadino”. È questo un passaggio fondamentale, che nel linguaggio contemporaneo significa che l’impresa non può essere autoreferenziale ma deve essere inserita in un sistema di valori, in un pensiero, in una filosofia, in una fede, in tutto ciò che fa un buon cittadino, “per conservazione de l’humana generazione”.

Ma sento che la vostra impazienza preme per arrivare, finalmente, ai nostri giorni. E lo farò passando attraverso un personaggio che molti di noi amano: Jacques Maritain.

Maritain, negli anni ‘30 e ‘40 del ‘900 ebbe intense frequentazioni negli Stati Uniti dove visse anche per lunghi periodi, dopo che, nel 1933, attraversò per la prima volta l’Atlantico.

Nel 1956 sullo stimolo di tre incontri di studio, tenuti all’Università di Chicago (il 6,7,9 novembre 1956), organizzati dal Committee on Social Thought, sviluppò le sue riflessioni sull’America in un volume, pubblicato nel 1958 a New York (Charles Scribner’s Sons) con il titolo Reflections on America (11). Maritain amava molto l’America, paese che, per tanti versi l’aveva entusiasmato, con punte di entusiasmo che, soprattutto alla luce dell’America odierna, possono apparire anche un po’ ingenue. L’America che entusiasma Maritain è quella che ha entusiasmato anche molti giovani nati negli anni ‘40 e ‘50, un’America molto diversa da quella degli ultimi trenta anni. Tuttavia, le sue riflessioni conservano un grande interesse generale.

Io mi devo restringere alle riflessioni contenute nel capitolo XIII della parte seconda, dal titolo: “Modestia eccessiva: si avverte la mancanza di una filosofia esplicita”. In questo capitolo Maritain sviluppa riflessioni molto profonde sul sistema economico e sull’impresa americana, dimostrando anche una buona conoscenza della migliore letteratura americana manageriale. Maritain prende le mosse ricordando l’estrema durezza degli scontri tra capitale e lavoro negli USA a cavallo tra 1”800 e il ‘900, che toccarono, ricorda Maritain, scontri armati, con morti e feriti ed almeno in un caso (12) l’utilizzo di carri armati contro gli scioperanti.

Maritain osserva gli sviluppi successivi a questi violenti scontri capitale-lavoro e constata, con soddisfazione, la nascita di rapporti sempre più civili e costruttivi. Molte sono le forze che spingono in questa direzione che provengono dalla dinamica stessa dell’economia e dell’industria, dall’insieme delle forze sociali e culturali, dalla guida politica e dalle istituzioni, dal progresso della legislazione sociale. E l’America degli anni ‘30, in particolare dopo le riforme del New Deal, riscuote la grande ammirazione di Maritain e la sua speranza che si sia traghettati in un mondo nuovo che lui chiama: “dell’umanesimo economico”. Vale la pena di leggere direttamente alcuni suoi passaggi:

“Il progresso nella legislazione sociale, che culminò con il riconoscimento del National Labor Relations Act nel 1935 e con l’ammissione dei diritti del lavoro di fondamentale importanza, ebbe una parte essenziale nel processo di trasformazione, così come essenziale fu la parte avuta dall’inflessibilità degli sforzi compiuti dallo stesso mondo del lavoro e dalla ostinazione dei suoi capi. Ed ora appunto constatiamo come il tipo medio di vita del lavoratore americano sia il più alto nel mondo, e renda possibile per la maggior parte dei lavoratori una vita umana conveniente. Il lavoro organizzato ha raggiunto una tale e tanto formidabile potenza (con le immense risorse finanziarie che lo mettono in grado di avere sue proprie istituzioni di benessere sociale, ospizi, strumenti di comunicazione con le masse), da tener testa da pari a pari ai grandi complessi societari e da contare sulle proprie possibilità di costringerti a venire a patti. La politica, poi, degli alti responsabili dell’organizzazione del lavoro è intesa ad ottenere le migliori condizioni possibili senza mettere a repentaglio l’incremento della produzione. Infatti, gli impegni stessi che il lavoro organizzato s’è assunti, ed il fatto che le sue risorse provengono dai contributi automaticamente ritenuti dalle paghe dei suoi membri comportano, come conseguenza, che la forza stessa del lavoro ha bisogno della grande industria, né più né meno di quanto, a sua volta, la prosperità della grande industria non può prescindere dal lavoro (13)… A questi grandi organismi, strutturati ed amministrati informa collettiva, stanno tuttora a cuore, senza dubbio, i dividenti dei loro azionisti, ma non si tratta più dell’unico, anche se importante pensiero; perché si è ben capito che, anche semplicemente per esistere e mantenersi produttivi, essi devono farsi sempre più attenti ed interessati al benessere generale. È così che, non già in virtù di una qualsiasi forma di carità cristiana, ma piuttosto in forza di un proprio interesse lungimirante e, diremmo, di una generosità ontologica del flusso umano - tutti, cioè, coloro che cooperano nell’impresa; nonché, in generale, il pubblico - sta gradatamente prendendo il sopravvento. Non arriverò ad affermare che questi complessi societari abbiano raggiunto uno stadio in cui antepongano il bene comune al proprio bene particolare. Ma non si può negare che essi siano ormai allo stadio in cui, per il loro stesso bene particolare, si rendono conto che non si può prescindere dai diritti superiori del bene comune”.

Questa evoluzione del mondo economico e del lavoro si intreccia, dice Maritain, con la natura e l’impegno civico dell’intera società:

“Infine, una delle caratteristiche più spiccate del quadro che ci offre questo mondo è data dall’infinito pullulare, in America, di gruppi privati, circoli di studio, associazioni, comitati che si prefiggono di “andare alla ricerca or di un aspetto or di un altro del bene comune”, e la cui attività confluisce e s’interseca in mille modi con l’azione governativa e con quella di altri gruppi privati, università, mondo degli affari e dell’industria. Ne derivano regolazione e stimolo collettivo, informa spontanea e di sicuro affidamento ad un tempo, al meraviglioso sforzo dell’intero paese: e si tratta di uno sforzo d’inestimabile importanza”.

Tutto questo fa intravedere a Maritain una profonda speranza verso una grande evoluzione positiva del sistema economico e dell’impresa, sempre più impegnati a cercare e rispettare, nel loro agire, il bene comune, un movimento verso quello che lui chiama “umanesimo economico”.

L’insieme del riformismo americano, quello dell’inizio del ‘900, di Theodore Roosevelt, La Follette e Woodrow Wilson, ripreso e sviluppato a livello federale con le grandi riforme degli anni ‘30 fa dire a Maritain, con il conforto di studiosi americani, tra i quali cita ancora una volta Drucker (14), che in America è in atto un grande processo di trasformazione che va oltre il capitalismo e oltre il socialismo:

“Ecco dunque come si sta, di fatto, sviluppando in questo paese un nuovo regime sociale ed economico: un fenomeno che smentisce le previsioni di Karl Marx e che si manifesta non già per una sorta di intima necessità nella evoluzione del capitalismo, come aveva creduto di prevedere Marx dall’alto della sua cattedra, ma grazie al senso di libertà e di umanità, grazie allo spirito e alla coscienza degli Americani, grazie allo sforzo collettivo d’immaginazione e di creazione proprio dell’America. Filosoficamente parlando, direi che il profitto individuale continua ad essere, come sempre continuerà ad essere, un indispensabile incentivo umano, ma che esso sta ora definitivamente perdendo il suo assoluto primato; e il principio della fecondità del denaro è definitivamente surrogato dal principio della compartecipazione agli utili in un’associazione contrattuale.

Questo nuovo regime sociale ed economico (15) è ancora in pieno divenire, ma ha già portato la storia umana oltre il capitalismo ed oltre il socialismo. Ancora il già citato Autore avverte che “Gli Stati Uniti non stanno evolvendo verso il socialismo, bensì lo stanno superando… È ora di renderci conto che quando lottiamo contro il comunismo, noi ci mettiamo in lotta contro il passato, non già contro il futuro”.

Siamo di fronte ad un fatto decisivo nella storia moderna, e questo fatto costituisce un notevole successo del modo sperimentale di procedere e di accostarsi al nuovo: il modo caro allo spirito americano”.

Non mancano nella riflessione di Maritain serie preoccupazioni e la visione della complessità del processo e degli ostacoli da superare:

“Le conquiste sociali di cui abbiamo parlato sono a loro volta causa, quando si tratti di grandi complessi societari, dei soliti guai del gigantismo, per non dire, poi, del “mal di produzione” che minaccia i quadri dirigenti. L’importanza e la potenza del denaro è sempre grande, di per sé: molto grande, anzi. Si aggiunga pertanto quest’altra considerazione: il tremendo potere dei complessi societari e delle loro amministrazioni viene via via, col suo crescere, ad investire sempre più l’interesse pubblico; orbene, proprio in rapporto con questo suo crescere, tale potere dev’essere legalmente controbilanciato e regolato da altri poteri di vario ordine. Gravi problemi, ad esempio, vengono posti dall’alleanza sempre più stretta fra grandi complessi e governo, e dal fatto che il graduale risveglio o, per meglio dire, la graduale presa di coscienza di questi complessi per quel che è la loro parte d’impegni e di responsabilità nei confronti del benessere generale - e, in ultima analisi, nei confronti del comune bene politico della nazione - li porta, volenti o nolenti, ad inserirsi praticamente nel giuoco politico della società democratica. Quantunque io fiduciosamente pensi che questi problemi verranno ad essere soddisfacentemente risolti - e alla stessa maniera anche quelli che si riferiscono alla parte politica, che il lavoro organizzato a sua volta è inevitabilmente chiamato ad avere infuturo - non posso tuttavia fare a meno di ammettere che tutto ciò richiederà molto tempo, molta energia umana e sforzo indefesso. La lotta fra lo spirito del popolo e la logica del sistema industriale è destinata a continuare in nuove forme ed in nuove fasi, man mano che il sistema industriale stesso sarà condotto dal progresso scientifico a nuove rivoluzioni tecniche. La graduale attuazione dell’ideale americano di eguale apertura al benessere per tutti e di progresso nella giustizia sociale sarà opera di generazioni. Ma intanto la strada è aperta: lo spirito informatore onde insomma dipende l’intera struttura dell’economia è mutato; è ormai subentrata una rottura con le vecchie forme di regime industriale.”

Ma nel complesso Maritain è convinto che il processo che descrive con tanta lucidità sia irreversibile.

Io sono professionalmente cresciuto negli anni ‘50 -’70 del ‘900 nel cuore del sistema americano e nell’ambito delle grandi corporation ed ho nutrito verso tale sistema la stessa ammirazione che ritrovai, con soddisfazione, quando lessi le riflessioni di Maritain, per la prima volta, nel corso degli anni ‘60.

Rileggendole oggi provo, invece, una grande amarezza osservando che quasi tutto quello che ha entusiasmato Maritain (con eccezione delle lotte tra capitale e lavoro, semplicemente finite perché il lavoro si è arreso) ha subito una formidabile regressione.

Il capitalismo più duro simile a quello del primo decennio del ‘900 è riapparso ed ha ripreso un sopravvento schiacciante. Il governo in USA è in mano ai miliardari, con i generali come alleati, ed hanno un unico obiettivo sempre più esplicito: aumentare sempre di più la concentrazione della ricchezza. Il parlamento è in gran parte formato da ben pagati servitori delle grandi corporation, le quali nel loro insieme, non hanno alcun interesse e rispetto del bene comune. Una teoria devastante, sostenuta dalle grandi università, dalle grandi società di consulenza, dai grandi “opinion makers” si è impadronito del mondo dell’impresa, la teoria dello “shareholder value”. Secondo questa teoria il management ha un unico dovere: quello di creare valore per gli azionisti, di tutto il resto, degli effetti del proprio operare sulla società in generale e sugli altri interessi che ruotano intorno all’impresa, se ne deve disinteressare. Con la devastante teoria dello “shareholder value”, che dagli USA si è diffusa nel resto del mondo occidentale, il pensiero aziendale e l’etica imprenditoriale ha fatto, sul piano teorico, una regressione di circa cento anni.

Ed oggi comprendiamo meglio perché Maritain, nelle sue riflessioni, lamenta la mancanza di “un’adeguata ideologia o di una filosofia” a sostegno dello sviluppo che lo aveva tanto entusiasmato. Quando l’agire umano non è sorretto da un pensiero, il rischio di regressioni nel processo di civilizzazione è sempre elevatissimo.

L’imbarbarimento del neo-liberismo

Lo sviluppo di un pensiero forte per il consolidamento del capitalismo democratico, auspicato e, forse, previsto da Maritain, non si è verificato. Al contrario si sono sviluppati un pensiero ed una connessa pratica di governo molto forti che, gradualmente ma rapidamente, partendo dagli USA, si sono diffusi e sono diventati dominanti nella maggior parte dei paesi occidentali, anche se con un’intensità di penetrazione diversa, negli ultimi 40 anni. Tale movimento, chiamato neo-liberismo segna una grande regressione morale, politica, intellettuale, istituzionale. Ma voglio restringermi al campo che conosco meglio: quello del management e della teoria d’impresa. In questo campo non sono ammessi dubbi ed incertezze: il movimento neo-liberale, con la sua teoria che il management deve interessarsi solo alla creazione di valore per gli azionisti (shareholder value) ( con i connessi smantellamenti di tutti gli istituti che avevano accompagnato il periodo aureo del capitalismo democratico, l’umiliazione del lavoro, l’estensione dei meccanismi di mercato in aree non appropriate, la finanziarizzazione totale dell’economia, il predominio dei potentati finanziari sul pensiero e sull’azione politica e sociale e sulle istituzioni democratiche), segna un’autentica fortissima regressione, che ci riporta al capitalismo selvaggio del primo novecento, per cui non è inappropriato parlare di autentico e pericoloso imbarbarimento.

La dottrina sottostante il pensiero neoliberale si basa su poche idee di fondo:

-   la libertà più assoluta dei mercati è il mezzo migliore per organizzare la società degli uomini e aumentare il loro benessere;

-   i mercati sono in grado di autoregolamentarsi e correggersi da soli;

i mercati sono sempre preferibili agli Stati e alla politica, i quali nel migliore dei casi sono inefficienti, nel peggiore mettono a repentaglio la libertà;

-   tutto o quasi tutto può e deve essere organizzato come mercato;

-   la concentrazione della ricchezza si diffonde nella società e genera sviluppo.

Su queste basi, che l’esperienza anche recente dimostra totalmente infondate, si sono sviluppate tre tremende malattie del sistema:

1. GRANDE CONCENTRAZIONE DELLA RICCHEZZA

Grande concentrazione della ricchezza e del reddito, con crescente emarginazione dei deboli. Per stare solo in Italia il Censis, in un recente focus, ha stimato che oggi in Italia ci sono, nella fascia 18-35 anni, circa 3 milioni di Neet, persone che non studiano, non lavorano, e non cercano lavoro, con una forte concentrazione nel Sud. A questi si aggiungono 2,7 milioni di working poors con retribuzioni insufficienti, con contratti di lavoro precari che si inquadrano nella categoria della Geek economy (tipo Uber). Si stima che la maggioranza di questo esercito di persone non sarà nella condizione di accedere ad una vita dignitosa ed andrà, nei prossimi 20 anni, ad ingrossare il popolo dei poveri che salirà a circa 6 milioni. Mentre il 5% della popolazione deterrà il 50% della ricchezza nazionale e forse di più.

2. FINANZIARIZZAZIONE DEL MONDO E DEL PENSIERO

La finanziarizzazione del mondo è Terrore di fondo che mina le nostre economie e le nostre società. Ne scrivo da molti anni definendola la “peste nera” del nostro tempo. È un modo di pensare e di agire che tende a mercificare ogni cosa, ogni sentimento, ogni rapporto umano. Tutto è e deve essere mercato o non essere. Non è la prima volta che il mondo cade in una analoga deriva. Nel declino dell’impero romano il denaro (asse) era diventato l’unico metro di misura del cittadino romano. Imperava l’antico motto di Petronio che diceva: hai un’asse, vali un’asse. E Seneca rifletteva malinconicamente “dal momento in cui il denaro incominciò ad essere onorato, il vero onore delle cose è caduto”. Ed anche l’impero romano cadde.

3. GESTIONE ESCLUSIVAMENTE O QUASI MONETARIA DELL’ECONOMIA

Negli ultimi anni, soprattutto dal 2008 l’economia è stata gestita quasi esclusivamente attraverso la leva monetaria. Piano piano tutti gli altri strumenti di una buona politica economica sono stati accantonati e si è puntato tutto e solo sulle manovre monetarie delle banche centrali. È nata così la terribile “trappola della liquidità” nella quale ci troviamo.

Vi sono rispettabili economisti che sostengono che queste degenerazioni del sistema (che loro non chiamano degenerazioni) sono conseguenza profonda e inevitabile degli sviluppi scientifici e tecnologici. Si innesta così una specie di determinismo negativo, che impedisce ogni tentativo di correzione. Io appartengo al filone di pensiero che non accetta questa lettura di comodo.

Bisogna avere, invece, il coraggio di risalire alle cause prime delle tante cose che non vanno, dei pericoli che corriamo, come ambiente, come sviluppo economico, come incivilimento. E lo studio delle cause ci porta, necessariamente, ad una lettura molto critica della concezione dominante dell’economia e dell’impresa, che va contrastata alla radice sulla base delle evidenze empiriche e delle migliori tradizioni intellettuali e morali. Non per ragioni astratte. Ma perché non funziona e lo scoppio della grande bolla nel 2008 lo dimostra al di là di ogni possibile dubbio. Certamente la forza della tecnologia gioca un ruolo importante. Ma queste degenerazioni sono conseguenze di una politica esplicita e di mancanza di contrasto.

Quando la grande crisi o, come la chiamo io, la grande trasformazione, da tempo in preparazione, esplose nel 2008, si contrapposero subito due linee di pensiero.

La prima, voce dei neoliberisti minimalisti, ancora oggi dominante, sostenne che la crisi era un normale incidente di percorso, di natura tecnica, che richiedeva solo la correzione di alcuni meccanismi finanziari, ma nessun cambiamento sostanziale del sistema. La formulazione più chiara di questa posizione fu, in Italia, quella formulata dall’allora rettore della Bocconi, l’economista Guido Tabellini che scriveva:

“Come sarà ricordata questa crisi nei libri di storia economica? Come una crisi sistemica e un punto di svolta, oppure come un incidente temporaneo e presto riassorbito, dovuto ad una crescita troppo rapida dell’innovazione finanziaria? Se guardiamo alle cause della crisi, e alle lezioni da trame, la risposta è senz’altro la seconda. In estrema sintesi, la crisi è scoppiata per via di alcuni specifici problemi tecnici riguardanti il funzionamento e la regolamentazione dei mercati finanziari, ed è stata acuita da una serie di errori commessi durante la gestione della crisi.” (sottolineature aggiunte)

La seconda, alla quale appartengo, è quella di coloro che sostenevano e sostengono che si trattava di una crisi globale, di una crisi di proporzioni gigantesche, di una crisi che cambiava il mondo. Nel 2009 scrivevo: “Questa crisi è in primo luogo un fallimento globale di una intera classe dirigente, quella bancaria e finanziaria, e della concezione che l’ha guidata in questi anni(16). E scrissi anche: “Gli economisti che alimentano questa visione (minimalista) sono degli sciocchi. Ci vorranno anni e anni, diciamo dieci, per riportare l’attività a livelli precrisi(17). Ed oggi dico che parlando di dieci anni fui molto ottimista, perché non avevo messo in conto il prolungamento della crisi causato dalle misure dei governi alla ricerca di una rapida uscita dalla stessa, che l’hanno aggravata.

Da questa visione scaturisce la ricerca, difficilissima, di nuove strade verso un sistema meno aleatorio, meno rischioso, meno violento, più giusto, verso un nuovo umanesimo della società e dell’economia.

Si tratta di obiettivi comuni a vari filoni di pensiero, che elenco schematicamente.

Economia civile. È un filone di pensiero antico, molto vivo nella tradizione italiana, che ha contribuito a grandi stagioni del pensiero italiano, come l’illuminismo lombardo e napoletano, che si basa sul mercato, come strumento al servizio della produzione, ma un mercato al servizio di un sistema al centro del quale vi è l’uomo e non il “capitai gain” (guadagno di capitale), come è del capitalismo finanziario dominante, e vi è lo sviluppo integrale, economico e civile, dell’uomo e della società, quello che i nostri antichi pensatori chiamavano incivilimento e che oggi chiamiamo processo civile. In questo filone si collocano tanti nomi di rilievo della tradizione del pensiero italiano, come: Antonio Genovesi, Antonio Rosmini, Carlo Cattaneo, Luigi Sturzo, Luigi Einaudi, Giuseppe Tomolo, Paolo Sylos Labini, Federico Caffè, e, tra i contemporanei, Stefano Zamagni, Alberto Quadrio Curzio, Giacomo Beccatini. Ma si tratta di un filone che ha le sue radici più profonde nei nostri comuni, dove l’attività economica e l’attività civile erano fuse tra loro, come a Firenze e a Siena.

Liberalismo classico e sociale. È questo il filone del grande pensiero liberale caratterizzato da una spiccata sensibilità sociale, che si contrappone nettamente al neoliberismo individualista e crudele di stampo anglosassone. Si collocano qui Luigi Einaudi, Luigi Sturzo, Giuseppe Zanardelli, Federico Caffè, e tanti altri.

Economia sociale di mercato. In questo filone di pensiero confluiscono elementi della tradizione liberale classica, dell’umanesimo cristiano, della dottrina sociale della Chiesa, del costituzionalismo democratico. Il mercato è centrale per l’attività economica, ma le regole democratiche e la solidarietà rappresentano il quadro istituzionale indispensabile perché il mercato non venga stravolto e manipolato e non travalichi i suoi compiti ed i suoi limiti. Come ha detto la Centesimus Annus ci sono cose che non si possono e non si debbono né comprare né vendere. Ed è qui uno dei punti centrali del conflitto con il capitalismo finanziario di stampo anglosassone per il quale tutto deve essere sottoposto alle regole del mercato, tutto può o deve diventare mercato, dalla politica alla sanità alla giustizia. Anche le radici dell’economia sociale di mercato sono antiche e questo pensiero si concretizza, in modo esplicito, nel primo dopoguerra, nella “Nuova Economia” di Rathenau, imprenditore, uomo politico, studioso e scrittore (18), assassinato dai nazisti nel 1922, per svilupparsi poi come pensiero organico nel corso degli anni ‘30 nella c.d. scuola di Friburgo; per diventare Tasse portante della politica della ricostruzione tedesca di Adenauer ed Erhard, nel secondo dopoguerra; per confluire infine nel processo europeo di integrazione, del quale rappresenta il pensiero economico portante (ma non purtroppo la prassi).

Dottrina sociale della Chiesa. Tradizionalmente ignorata dal pensiero economico, salvo rare ma significative eccezioni, come Roepke, Einaudi, Adriano Olivetti, Caffè, la Dottrina Sociale della Chiesa è emersa dalla crisi come uno dei filoni di pensiero socio-economici più vigorosi, attuali e capaci di indirizzare la ricerca per una nuova economia più umana e più giusta e perciò stesso anche più efficiente.

I filoni di pensiero sommariamente delineati sono diversi tra loro ma hanno molti punti in comune. Il principale è che tutti coltivano l’obiettivo di un nuovo umanesimo economico. Ma per perseguire questo obiettivo essi devono tutti passare attraverso due passaggi fondamentali e comuni, due porte strette, delle quali non sempre sono consapevoli.

La prima porta stretta è che non si può costruire niente di nuovo se non si passa attraverso una battaglia dura contro il capitalismo finanziario, che è tornato dominante e che è la peste del nostro tempo. In realtà non è la prima volta che il capitalismo finanziario USA diventa dominante e incarna il vero potere. È già avvenuto nell’ultimo decennio dell’ottocento e nel primo decennio del novecento. È da poco uscito un libro molto interessante (19) che, per la prima volta, traduce in italiano, con bella prefazione di Lapo Berti, gli scritti di battaglia del giudice Louis Brandeis, noto come “The People’s Lawyer”, giurista eminente, collaboratore stretto del presidente Wilson nella campagna delle presidenziali del 1912 condotte all’insegna del motto “New Freedom”; ispiratore della legislazione antitrust; dal 1916 al 1939 giudice della Corte Suprema degli USA e in tale veste partecipe anche del New Deal di F.D. Roosevelt. In questi scritti, riuniti sotto il titolo: “I soldi degli altri e come i banchieri li usano”, Brandeis attacca lo strapotere dei banchieri di investimento e illustra la loro pericolosità per il sistema democratico americano. Nei primi anni del ‘900 i presidenti Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson contrastarono e contennero il fenomeno, soprattutto con l’azione antitrust. Ma il capitalismo finanziario riesplose con forza selvaggia negli anni ‘20 del ‘900 e portò dritto alla grande crisi degli anni ‘30. Furono le riforme fondamentali del New Deal di F.D. Roosevelt negli anni ‘30 a riportare il fenomeno in un solido quadro di democrazia economica che è durato circa 30 anni. Fu lo smantellamento delle regole del New Deal, operato dai presidenti Reagan e soprattutto Clinton, che cancellò la fondamentale separazione tra banchieri di investimento e banchieri di deposito introdotta negli anni ‘30 da Roosevelt, a ridare via libera al capitalismo finanziario selvaggio che, in poco tempo, ci ha riportato indietro, sul piano della concezione dell’economia, di circa 100 anni e ha ridato ai grandi centri finanziari un potere abnorme, pericoloso per la democrazia americana e, data l’influenza che questa ha su tutti gli altri paesi, per l’insieme dei paesi occidentali, subordinando l’impresa produttiva, il lavoro, e la dignità del lavoro allo strapotere irresponsabile della grande finanza e dei militari.

Nell’organizzazione del lavoro, nell’impresa e nella società, è avvenuta una grande trasformazione della quale non abbiamo ancora piena consapevolezza. Un’analisi approfondita del fenomeno l’ha sviluppata recentemente lo studioso francese Pierre - Yves Gomez che, nel suo importante libro: Le Travail Invisible. Enquète sur une disparition (Ed. Bourin, Parigi, 2013), analizza la trasformazione che lui chiama: la finanziarizzazione del lavoro umano, che come realtà concreta è sparito, sostituito da astrazioni contabili - finanziarie. La guida delle imprese e soprattutto delle grandi imprese è tutta impostata esclusivamente in termini contabili-finanziari. Il potere di direzione è passato dagli ingegneri, dagli innovatori, ai contabili-finanziari, quelli che una volta, nella grande Olivetti, venivano chiamati contafagioli. Persino imprese pubbliche, create per facilitare il lavoro delle altre imprese, imprese che dovrebbero essere in equilibrio economico ma non fare profitti, si misurano in termini di parametri finanziari, come una qualsiasi banca, invece che in base all’utilità realizzata a favore delle imprese che devono sostenere. Il lavoro non è più quello concreto della vita reale, ma un’astrazione che deriva da degli obiettivi- parametri finanziari prefissati. Abbiamo una generazione di dirigenti quarantenni che non hanno mai ragionato altro che in termini finanziari, e spesso con una visione perversa anche della finanza.

Questa grande trasformazione spiega perché dal 1980 al 2007 in 51 paesi sui 73 per i quali abbiamo i dati, i redditi di lavoro sul PIL sono scesi, in media di 9 punti nelle economie avanzate, di 10 punti in Asia, di 13 in America Latina. Sono valori giganteschi. I punti persi sono andati alle rendite finanziarie. Come gigantesca è la conseguente concentrazione di ricchezza avvenuta, nello stesso periodo. Negli USA, epicentro e guida del processo, la concentrazione di ricchezza ha raggiunto nel 2007 esattamente lo stesso livello del 1928.

Concentrazione dei redditi negli USA

2018 04 20

E questo spiega anche la Frequenza delle crisi finanziarie

• 1987

Crollo di quotazioni a Wall Street

• 1989

Crisi finanziaria e dei valori immobiliari in Giappone Inizio di una stagnazione ultradecennale

• 1992

Crisi finanziaria e valutaria del sistema monetario europeo che costringe lira e sterlina ad uscire dal sistema

• 1994

Crisi finanziaria gravissima in Messico, con effetti sul sistema finanziario internazionale

• 1997

Crollo finanziario delle «tigri asiatiche»

• 1998/1999

Crisi finanziaria di Brasile e Russia con svalutazione del rublo

• 2001/2002

Nuovo crollo di Wall Street con lo scoppio della bolla della new economy

• 2008/2009

Grande crisi finanziaria ed economica mondiale con detonatore i mutui sub prime USA

• 2011

Nuova fase della crisi mondiale con particolare enfasi sui paesi del Mediterraneo, compresa l’Italia

• 20??

Nuova crisi finanziaria, certa nell’”an” anche se resta incerta nel quando

L’economia di mercato e imprenditoriale è per sua natura instabile, come ci ha insegnato in particolare Hyman Minsky. Ma quando le crisi si susseguono con tale frequenza, ciò significa che qualcosa di abnorme si è inserito nel sistema. Il fattore degenerativo del sistema è l’eccesso di finanziarizzazione dell’economia e di concentrazione della ricchezza. Sino a quando questi due fattori non saranno riportati a livelli fisiologici, la frequenza delle crisi continuerà.

In Europa i paesi che più da vicino hanno seguito gli USA in questo abnorme processo di concentrazione della ricchezza sono stati, nell’ordine, Inghilterra, Spagna, Italia (in Italia il 10% della popolazione più ricca controlla il 50% della ricchezza nazionale). Ma questo spiega anche perché, al di là delle dichiarazioni retoriche e demagogiche, il tema del lavoro e dell’occupazione non è per nulla in evidenza. In Europa i disoccupati sono 26 milioni. In Italia 3.400.000. Se anche credessimo alla favola che il Jobs Act creerà 1 milione di posti di lavoro, cosa ne facciamo degli altri 2.400.000? È evidente che senza un cambio di marcia nel pensiero e nell’azione economica di fondo non andremo da nessuna parte. Quando ho incominciato a studiare economia il tema della piena occupazione era al centro del pensiero di tutte le scuole economiche. Era questo il parametro base sul quale si commisurava la bontà o meno delle politiche economiche. Oggi non è più così e il tema è stato sospinto nel retrobottega. Perché per affrontarlo seriamente bisogna fare dei grandi programmi pubblici e privati di nuovi investimenti in nuovi settori e attività. E questo è velleitario in un’economia dove gli investimenti li decidono i finanzieri e le banche, in base ai parametri finanziari di cui parlavo sopra. Dopo la grande depressione degli anni 30 del ‘900, si intervenne sull’economia reale e la maggioranza della popolazione vide, sia pure con fatica, ricrescere il proprio reddito. Dopo la grande recessione del nostro tempo si è pensato principalmente a tenere in piedi la finanza ed a beneficiarne è stato l’I % della popolazione.

È uscito pochi anni fa un libro importante che affronta alcuni temi centrali, di Colin Crouch, dal titolo originale: The Strange non death of neo-liberalism (20).

L’analisi di Colin Crouch (21) si articola nei seguenti punti principali:

-    La crisi devastante delle economie occidentali del 2008-2009 avrebbe dovuto portare con sé il crollo della dottrina economia egemone, il neoliberalismo, come si è andata configurando a partire dagli anni ‘70. Tale dottrina si basa su tre idee di fondo: la libertà più assoluta dei mercati è il mezzo migliore per organizzare la società degli uomini ed aumentare il loro benessere; i mercati sono sempre preferibili agli Stati ed alla politica, i quali nel migliore dei casi sono inefficienti, nel peggiore mettono a repentaglio la libertà; tutto o quasi tutto può e deve essere organizzato come mercato.

-    Il crollo finanziario che ha coinvolto le maggiori banche del mondo ha messo in dubbio il fondamento di queste idee. I mercati finanziari erano la più libera e sofisticata forma di mercato della storia umana. La teoria economica del neoliberalismo aveva sostenuto che i mercati finanziari liberalizzati e deregolamentati avrebbe corretto da sé ogni squilibrio ed eccesso. Ma così non è stato. Le maggiori banche sull’orlo della bancarotta di sistema si sono rivolte ai governi, chiedendo loro di salvarle con somme di denaro ingentissime dei contribuenti, quei governi che, secondo i presupposti del neoliberalismo, non dovrebbero effettuare interventi sul mercato. Vi è proprio qui la più plateale e paradossale contraddizione tra le basi teoriche del neoliberalismo ed i suoi esiti pratici.

-    Perché “i governi hanno accettato le richieste delle banche”? si chiede Crouch. Se la domanda vuol dire: perché i governi le hanno salvate? la risposta può essere abbastanza ovvia: per non far crollare il sistema. Ma io aggiungo un’altra domanda ancora più importante: perché i governi hanno accettato le richieste delle banche senza condizioni, in termini di governance e di responsabilità (se si esclude una montagna di chiacchiere inconcludenti e costosissime?). Qui la risposta diventa più difficile. E l’analisi di Crouch fornisce degli elementi per la risposta, ma insufficienti.

-   La tesi centrale di Crouch, che è il cuore della sua analisi, è la seguente. Oggi bisogna spiegare “non i motivi per cui il neoliberismo in crisi è destinato a morire, ma esattamente l’opposto: come mai esso stia riemergendo dal collasso finanziario, politicamente più forte che mai. La crisi finanziaria ha riguardato le banche e i loro comportamenti, ma la soluzione, in molti paesi, è stata individuata in un definitivo ridimensionamento del “welfare state” e della spesa pubblica. Il tema non riguarda un solo paese, perché il neoliberismo è un fenomeno internazionale o meglio globale. Ci troviamo così oggi a dover prendere atto della “strana” morte mancata del neoliberismo. Perché? L’analisi di Crouch cerca di rispondere a questa difficile domanda. Si tratta di un’analisi approfondita e convincente. Non cercherò di riassumerla, ma solo di sottolinearne i punti salienti. Per capire la resilienza del neoliberismo è necessario rendersi conto che esso ha radici profonde ed è il frutto di un concorso di fattori e di energie importanti. Sono l’inflazione e la recessione degli anni ‘70, con la crisi del keynesismo, paradigma dominante nei precedenti 30 anni, che aprono le porte ad un forte rilancio del neoliberismo che, nel frattempo, si era andato riorganizzando sul piano del pensiero, venendo a incrociarsi con la corrente monetarista di Milton Friedman, che trasformò l’Università di Chicago nel più potente centro mondiale di irradiazione delle idee neoliberiste. Tra i sessantaquattro premi Nobel per l’economia conferiti negli ultimi quarant’anni, ben nove sono andati a studiosi neoliberisti dell’Università di Chicago. E “Chicago boys” vengono chiamati gli economisti cileni che, coperti dalla mano di ferro e lorda di sangue del dittatore Pinochet, subentrato dopo il colpo di stato, orchestrato dai servizi segreti americani che, nel 1973, aveva rovesciato Salvatore Allende, instaurano il primo regime dichiaratamente neoliberista. Ed è certo paradossale che un pensiero che sostiene un regime economico caratterizzato dalla massima assenza possibile dello Stato e dalla massima libertà, necessiti, per realizzarsi, dell’appoggio di uno dei più feroci dittatori degli ultimi cinquantanni. Ma, passo dopo passo, passando attraverso la Thatcher, Reagan, il FMI, la Banca Mondiale, l’OCSE, e da ultimo l’Unione Europea, tutti si allineano al modello neoliberista, caratterizzato da: deregulation finanziaria, graduale svuotamento del tradizionale approccio americano della legislazione antitrust, graduale smantellamento dei diritti dei lavoratori (l’OCSE fa propria questa impostazione nel 1994 con il Jobs Study), favore conclamato per le grandi dimensioni aziendali e per le grandi concentrazioni di ricchezza, fiscalità sostanzialmente regressiva, privilegio per il c.d. “consumer welfare” un concetto paternalistico e dirigista che sostituisce la nozione liberale di “consumer choice”. È invero una marcia trionfale che disintegra (in gran parte, comprandoli) uno dopo l’altro, tutti gli oppositori, dalla sinistra al sindacato, e che è costellata di paradossi e contraddizioni: “Ci avevano detto che il mercato è sempre e solo questione di scelta individuale, ma il neoliberismo di Chicago ha ridefinito tale scelta in modo da farla coincidere spesso, de facto, con ciò che è più gradito alle grandi imprese” (C. Crouch). Le commistioni tra potere economico e potere politico anziché diminuire aumentano. Tutto il processo di deregolamentazione finanziaria è frutto delle lobbies e di montagne di denaro speso dalle stesse per ottenere dal Congresso i provvedimenti desiderati. Sino a che, come scrive R. Reich, ex segretario di Stato di Clinton, le grandi imprese finiscono per dominare il governo americano. Nel 2010 il Fondo Monetario Internazionale ha dichiarato che nel precedente ciclo elettorale di quattro anni le aziende statunitensi - prime fra tutte quelle operanti nel segmento più rischioso del settore finanziario - avevano speso in attività politiche ben 4.2 miliardi di dollari. Un ex economista capo del FMI, Simon Johnson, ha affermato (2009) che “il settore finanziario è ormai in grado di controllare il governo degli Stati Uniti con le stesse modalità con cui si pensa quando si parla di paesi in via di sviluppo”. (C. Crouch). Ma il neoliberismo non è solo una scuola di pensiero. È un poderoso movimento politico che coinvolge grandi interessi. La corsa alle grandi dimensioni aziendali, la fenomenale concentrazione di ricchezza, la deregolamentazione finanziaria e la conseguente moltiplicazione delle attività finanziarie, l’esplosione del debito privato agevolato da una precisa politica (keynesismo privato), porta alla creazione di larghi ceti fortemente beneficiati dal neoliberismo ed interessati al suo perdurare. Tra questi anche un gran numero, la maggioranza, degli economisti e degli intellettuali in genere. E questo spiega la grande debolezza del pensiero critico. La rottura del 2008- 2009, con la quasi esplosione del sistema finanziario internazionale, ha, per un breve periodo, aperto la possibilità di un ripensamento critico per un aggiustamento del sistema. E ci furono spunti di ripensamento seri e anche ortodossi come quello di certi altri esponenti della BRI. Ma tale possibilità si è subito richiusa, se, già nell’estate 2009, potevo scrivere:

“Oggi la situazione è peggiore di quella dell’inizio della crisi:

  • il principio “too big to fail”, che è contrario in modo inconciliabile alle premesse del capitalismo di mercato, ha stravinto e si è imposto;

  • le grandi banche si sono ridotte in numero, ma anche per questo, sono diventate ancora più grandi, potenti, influenti, irridenti e più protette dalla concorrenza;

  • le regole e insieme l’assenza di regole che ha portato al disastro restano ben salde e nessuno insiste più, in modo serio, per correggerle e integrarle. In ogni caso l’agenda non è in mano al presidente, ma al Congresso, guidato dal grande denaro delle grandi lobby. Obama aveva detto orgogliosamente, nel corso della campagna elettorale, che le lobby su di lui non avevano influenza perché la sua campagna elettorale era immune dal denaro dei lobbisti. Ora ha imparato che non immune da questo denaro è il Congresso, del quale lui ha, comunque, bisogno;

  • la Corporate America e i suoi cavalier serventi, la grande maggioranza degli economisti, si sono compattati con grande forza ed efficacia sull’obiettivo di conservare il sistema così come è. Dove sono quelli che continuano ad alimentare la favola che gli americani sono sempre disponibili e rapidi a cambiare le cose che non vanno, mentre noi, poveri europei, siamo un po’lenti e tonti?

  • nessuno ha posto, con serietà, il tema della necessità di bilanciare i poteri dei CEO, in modo sistematico e istituzionale (ma si sono solo messi o invocati tetti ai bonus dei top manager nelle banche e assicurazioni partecipate dal governo).

L’analisi di Crouch conferma e arricchisce, dunque, quello che era già intuibile nell’estate del 2009. Essa ci fa capire la profondità e la forza delle radici del neoliberismo. E ci fa capire altresì le ragioni per cui, nonostante la gravità della crisi del 2008-2009, il neoliberismo sopravviva alla crisi ed anzi ne esca rafforzato: “Come far fronte all’enorme azzardo morale creato dal fatto che i governi considerano l’irresponsabilità finanziaria un bene collettivo. Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzi tutto renderci conto che le élite politiche ed economiche faranno tutto ciò che è in loro potere per difendere il neoliberismo in generale e la sua specifica forma imperniata sulla finanza. Quelle élite hanno tratto enormi vantaggi dalle disparità di ricchezza e potere, create dal sistema dopo la fine dell’epoca socialdemocratica imperniata su imposte fortemente redistributive, sindacati forti e regolamentazioni pubbliche”.

Dunque, secondo Crouch, continueremo a vivere in un mondo dominato dal pensiero neoliberista, da crescenti concentrazioni di ricchezze, dal predominio delle grandi imprese sui loro stessi governi, che assumeranno così natura di soggetti politici, senza averne peraltro la corrispondente responsabilità e controllo democratico (per quel che ancora vale).

Questa parte dell’analisi di Crouch è quella che si lega al nostro paziente e difficile lavoro sui valori d’impresa. Anche Crouch, come noi, respinge la concezione, propria della Scuola di Chicago, dell’impresa come semplice fascio di contratti: “Come ho fatto lungo tutto il libro, respingo l’idea che l’”impresa” sia un semplice paragrafo del dibattito sul “mercato”. In fatto di valore, l’impresa occupa un posto molto diverso dal mercato.... Dunque, sia i mercati che gli Stati hanno un rapporto complessivo con i valori. Ma, come vedremo, questi sono importanti se vogliamo trovare una via d’uscita dal vicolo cieco creato dalla concezione dominante sui rapporti tra Stati, mercati e imprese. Perciò dobbiamo analizzare più da vicino il posto dei valori nella società”.

E così Crouch giunge, sia pure in forma dubitativa, al concetto di impresa responsabile. Si veda il paragrafo: “Dopo il keynesismo privatizzato, l’impresa responsabile?” (pag. 140). Ma proprio qui l’analisi di Crouch mostra un suo limite importante ed, al contempo, evidenzia il valore del filone di ricerca sull’impresa responsabile. Pur non accettando la visione della scuola di Chicago dell’impresa come complesso di contratti, Crouch finisce, si direbbe quasi con rassegnazione, per partire dalla concezione, sempre della Scuola di Chicago, dell’impresa come soggetto operante secondo l’esclusiva finalità della massimizzazione del profitto per gli azionisti. È questo il cuore della concezione distruttrice della scuola di Chicago, alla quale Crouch non sa opporre che una tenera speranza riposta nella favola della “corporate social responsibility”, della cui intrinseca debolezza, peraltro, si rende conto.

Ed invece, come sappiamo, la teoria dell’impresa responsabile ha bisogno di reggersi su basi ben più solide, legate alla natura dell’impresa ed alla sua funzione sociale come soggetto di sviluppo, come sosteniamo nelle nostre ricerche da tanti anni (22). Come possibili fattori di contenimento dello strapotere del neoliberismo, della plutocrazia e del dominio, anche politico, delle grandi imprese che ne consegue, Crouch, oltre all’impresa responsabile, identifica: i movimenti militanti della società civile (e qui c’è un collegamento con la nostra attenzione all’Economia Civile della tradizione italiana), le religioni e le Chiese, depositarie delle sfide etiche e dotate di proprie risorse autonome dalle imprese e dallo Stato ( e qui il nostro collegamento è con la crescente importanza della DSC, tradizionalmente ignorata dagli economisti, con le poche eccezioni importanti citate e tutti quei ceti professionali e del volontariato che, privi di potere politico reale, rappresentano tuttavia un potere nella società civile grazie alla loro competenza (“thè power of thè powerless” di cui parlava Vaclav Havel negli anni ottanta).

Anche su questo punto l’analisi di Crouch è convincente, ma incompleta. Bisogna portare avanti la ricerca nella direzione da lui indicata e che si incrocia con tanti passaggi delle nostre ricerche. Ho già detto che la sua intuizione del ruolo dell’impresa responsabile è importante ma denota una insufficiente comprensione dell’impresa non gigantesca, della sua storia, della sua natura e dei suoi valori. Sono gli studiosi dell’impresa che devono definitivamente scalzare la concezione dell’impresa della scuola di Chicago, della quale anche Crouch è sostanzialmente succube e cerca di liberarsi, ma non partendo dal centro della tematica dell’impresa, quanto piuttosto dal folklore marginale della “corporate social responsibility”. Il secondo punto è che Crouch non affronta una domanda centrale. Il fatto che il neoliberismo abbia stravinto e mantenga così facilmente le sue posizioni, nonostante la gravissima crisi da lui stesso originata, non è dovuto anche al fatto che si è trovato in un deserto di pensiero alternativo? E questo deserto continua anche se non sono mancate prese di coscienza critiche, sostanzialmente isolate, come quella di Richard Posner, giudice, giurista, economista, uno dei più illustri esponenti della scuola di Chicago, che ha sostenuto, insieme al suo grande amico e premio Nobel, Gary Becker, che il termine Scuola di Chicago andrebbe abolito perché la Scuola ha fallito su due temi centrali: la teoria dell’assoluta razionalità dei mercati e quella dell’assoluta misurabilità del rischio. È questa impostazione che porta agli algoritmi matematici sulla valutazione dei rischi dei derivati sui quali Wall Street ha costruito la sua caduta. Secondo Posner “gli economisti sono stati messi KO da un diretto al mento e non c’è volontà di dare una lettura seria di che cosa ha provocato la crisi”. Eppure, un pensiero alternativo poteva esistere, anche in America. Basta rileggere i discorsi di Obama quando correva per la prima elezione, quando parlava di Main Strett v. Wall Street, e qualcuno teorizzava di una Obamanomics. Questo vuoto va riempito, non con ritorni al passato ma andando verso il futuro, per tentare di allontanarci dalla conclamata plutocrazia verso una speranza di neodemocrazia.

Un altro punto importante che resta inesplorato dalla analisi di Crouch è cosa succederà nella prossima grave crisi finanziaria. Se è vero, come è vero, che il neoliberismo ed il sistema delle grandi banche globali hanno ripreso, alla grande, i giochi ed i comportamenti ante 2008, è prevedibile che le conseguenze siano simili o analoghe. Come prepararci a questa evenienza o come contenerne gli effetti? Crouch non analizza questa questione e sembra supporre che il neoliberismo e l’irresponsabilità bancaria possano continuare come prima a tempo indeterminato e senza le relative conseguenze.

Ma dobbiamo stare attenti a non indulgere alla nostalgia e ricercare, nel passato, soluzioni a sfide nuove. Dal passato prendiamo i valori, gli insegnamenti, gli esempi, le esperienze che ancora valgono, ma le soluzioni le dobbiamo trovare noi attraverso il coraggio, l’innovazione, e lo spirito di verità (“la parrésia” dei greci). Dalla stessa fase della finanziarizzazione, ripulita dalle esasperazioni e strumentalizzazioni, vi sono utili lezioni e utili strumenti da trarre. E qui ci aiuta Adriano Olivetti, quando ammonisce: “I tempi corrono, le cose si muovono, non possiamo fermarci a rimescolare le formule e le istituzioni del passato se non per quella parte di bene che in esse è contenuta e per cui ancora valgono… La luce della verità soleva dirmi mio padre, risplende soltanto negli atti, non nelle parole”.

Ripartiamo da qui, da queste memorie, con la nostalgia certamente, ma anche e soprattutto con speranza, guardando avanti per cercare di insegnare ai giovani a impegnarsi per costruire un futuro economico e imprenditoriale più vicino alla concezione d’impresa di Adriano Olivetti che a quella dei signori Riva dell’Uva, o delle grandi banche “too big to fail” che, ancora, dominano il governo ed il Parlamento americano e, per questo tramite, parte importante del mondo.

Alimentiamo, dunque, la speranza ma non la spensieratezza e con la consapevolezza che stiamo sempre correndo sull’orlo del baratro. Dopo il 2007, nonostante tutti i blà blà che abbiamo sentito, il debito globale del mondo, lungi dal diminuire, come hanno cercato di farci credere, è aumentato da 142 mila miliardi a 199mila miliardi di dollari, cioè siamo passati da un debito globale del 265% ad uno del 286% del PIL mondiale. E l’Italia è nella parte alta della classifica, occupando la dodicesima posizione. E molti dei parametri finanziari che ci hanno spaventato e preoccupato nel 2008 e 2009 sono sempre con noi, in parte peggiorati. Recentemente (FT 21 aprile 2015) la voce saggia di Paul Volcker ha ammonito l’America che lo “shadow banking” (il sistema bancario ombra) rappresenta un grande pericolo, che il lavoro di correzione del sistema iniziato dopo la crisi del 2008 è un lavoro non finito (“unfinished task”) e che “all thè evidence is that time has come to do something” (tutte le evidenze testimoniano che il tempo è giunto di fare qualche cosa). E il governatore della BCE, in un intervento al Fondo Monetario Internazionale “warms central banks against “blind” risk taking” (FT 15 maggio 2015) (“ha ammonito le banche centrali della pericolosità di assumere rischi alla cieca”). E se lo dice una persona così organica al sistema, vuol dire che la cosa è veramente seria.

La seconda porta stretta è che il ricupero di una economia produttiva passa necessariamente attraverso l’impresa, il soggetto della produzione e dello sviluppo economico. La grande recessione non ha solo messo a dura prova la gestione quotidiana e la sopravvivenza delle nostre imprese e molte, in numero abnorme, le ha fatte scomparire (in Italia abbiamo perso il 25% della base produttiva manifatturiera). Ma ha posto sul tappeto, con forza, temi fondamentali sulla natura delle imprese, sui principi fondamentali che le reggono, sui rapporti impresa società, sul ruolo delle grandi imprese come soggetti politici. In questo grande processo di adattamento, di rivoluzione, di maturazione, i sostegni intellettuali ricevuti dalle imprese da quelli che dovrebbero essere centri di pensiero e di indirizzo, sono stati, per lo più, ingannevoli e distorcenti (penso alle grandi università, alla Confindustria, ai centri di ricerca, ai ministeri dell’economia). Se mettiamo in fila i messaggi inviati da questi centri alle imprese dal 2008 ad oggi, ne emerge una successione di indirizzi così erronei e distorcenti, da legittimare la domanda: come è possibile che l’ossatura delle nostre medie imprese sia sopravvissuta nonostante tutto? Forse perché hanno una tale sfiducia nei centri di comando che non hanno mai dato loro retta. La sfiducia come autodifesa. Ed oggi che riemergono spunti positivi effettivi, la resistenza da parte delle nostre imprese esportatrici è di conforto. Però un nucleo solido di medie imprese manifatturiere (c.d. quarto capitalismo), insieme a un, questa volta, probabile ricupero congiunturale di una più vasta platea delle stesse, non è sufficiente. Per due motivi. Perché la nostra industria manifatturiera, pur importante, rappresenta una quota modesta del PIL. Ma soprattutto perché non basta un ricupero di natura congiunturale. L’impresa deve fare un salto di qualità sul piano intellettuale e comportamentale. Deve uscire da questo doloroso e lungo travaglio, migliore, più forte, più adatta ai nuovi tempi, più proiettata al futuro. E per questo deve crescere qualitativamente su vari fronti:

-   l’impresa deve diventare più cosciente del suo ruolo fondamentale nel disegno di sviluppo del paese, più cosciente del suo ruolo e delle sue responsabilità pubbliche;

-   l’impresa deve riprendere ad investire in modo importante sul futuro. Come ha detto Martin Feldstein: non c’è QE (“Quantitative Easing”) che tenga se non si investe;

-   l’impresa deve migliorare moltissimo i suoi modelli di governance e organizzativi e liberarsi dal familismo (degenerazione dell’impresa familiare);

-   l’impresa deve far crescere al suo interno un più elevato rispetto per il lavoro in tutte le sue forme, per la conoscenza, per la partecipazione;

-   l’impresa deve far proprie con più profondità e coerenza le nuove tecnologie digitali;

-   i diritti/doveri di tutti, a partire da quelli dell’imprenditore devono essere ripensati e riorganizzati in schemi di potere/responsabilità molto più rispondenti alle sfide dei tempi, sfide che si sono molto alzate rispetto a quelle che erano prima dello scoppiare della crisi;

-   la moralità e responsabilità di tutti i soggetti che operano nell’impresa deve collocarsi ad un livello molto più elevato, dalla proprietà all’imprenditore, ai manager, ai consulenti, ai dipendenti, ai sindacalisti. L’impresa non appartiene a nessuno di loro ma, in modi diversi, a tutti. È un bene collettivo che, come tale, va da tutti rispettato;

-   l’impresa infine deve essere liberata dalla disgraziata cultura della finanziarizzazione, che è un modo di pensare e di giudicare solo e sempre basato sul ritorno a breve termine, in base a parametri contabili ottusi e ciechi. È questa la malattia più grave che ha pervaso non solo il mondo dell’impresa ma tutta la società. Ragionando e valutando secondo gli odierni schemi della finanziarizzazione, i milanesi non avrebbero mai scavato quel Naviglio Grande che, per mille anni, è stato creatore di ricchezza con l’irrigazione, i trasporti, la produzione di energia; non avrebbero mai eretto il Duomo, non avrebbero mai costruito il Policlinico, non avrebbero né la Cattolica, né la Bocconi e neanche il Politecnico e neppure il Museo della Scienza e della Tecnologia. Con gli schemi della finanziarizzazione dominanti oggi, le nostre città sarebbero un deserto. L’impresa e l’imprenditorialità sono visione, coraggio, cultura, sono il trovare le strade per fare di più con meno, sono trovare le risorse quando sembra che non ci siano. Per progetti giusti e utili, le risorse ci sono sempre, in qualche luogo. Basta andarle a cercare ed essere affidabili. L’affermazione che abbiamo sentito risuonare in tante occasioni negli ultimi anni: “non ci sono i soldi”, è l’alibi degli impotenti o degli imbroglioni.

Tempo fa, in occasione del premio Nonino, la filosofa Martha Nussbaum, che giudico uno dei più interessanti pensatori del nostro tempo, ha detto: “Viviamo in un periodo che è una vera sfida per l’umanità come mai lo è stato in anni recenti, un periodo che mette alla prova i valori della comprensione umana, il reciproco rispetto, e la compassione”. Ed ha elencato i valori più necessari per fronteggiare il difficile futuro. Questi valori, o “propositi” come lei li ha anche chiamati, sembrano a me molto indicati anche per l’impresa, se vogliamo che essa non si attesti su una mera attesa di ripresa congiunturale, ma contribuisca ad una vera e propria opera d ricostruzione, di sé stessa e del paese:

-   Intelligenza prima di tutto

-   Coerenza di principi

-   Immaginazione

-   Lavoro di squadra

-   Speranza

Il compito al quale l’impresa è chiamata è, dunque, molto elevato. E da sola non ce la può fare. È indispensabile che si realizzi un incrocio di culture diverse, perché è solo da un incrocio di questo tipo, che può nascere un nuovo progetto di sviluppo economico e civile.

Gli argini di difesa e il ruolo della Dottrina Sociale della Chiesa

Dei filoni di pensiero alternativi evocati per il citato incrocio di culture, citati all’inizio, vogliamo concentrarci ora su Dottrina Sociale della Chiesa ed Economia Sociale di Mercato, perché non si tratta solo di filoni di pensiero ma di organizzazioni sociali in atto.

L’economia sociale di mercato di matrice tedesca, derivazione della dottrina dell’Ordoliberalismo, detta anche Scuola di Friburgo, è una scuola di pensiero sociale, economico e politico che ha avuto una grande influenza sulla rinascita tedesca e sulla nuova Costituzione della Repubblica di Bonn, dopo il crollo devastante della Germania nazista. Essa ha trovato in Konrad Adenauer e Ludwig Erhard, primi e principali artefici della rinascita tedesca, la convinta guida politica che ha tradotto in realtà politica, giuridica, culturale, economica e sociale questo grande filone di pensiero. Ed è proprio la capacità di concretizzarsi nelle istituzioni tedesche, e l’indiscutibile successo pratico, che hanno fatto dell’Economia Sociale di Mercato un paradigma di particolare significato, importante per tutta l’Europa (23), ma anche per quella parte di mondo che, grazie alla crisi, è alla disordinata ricerca di qualcosa che lo aiuti a disintossicarsi dal “turbo-capitalismo” piratesco e dal neoliberismo finanziario senza regole che, è ormai chiaro, è una via verso la rovina. Questo filone di pensiero fu detto anche “Neoliberalismo” (in un senso completamente diverso da neoliberismo odierno), definizione che però non piacque a Wilhelm Ròpke, uno dei suoi più eminenti esponenti, il quale, commentando l’enciclica di Giovanni XXIII Mater et Magista del 1961, ha scritto: “L’Enciclica Mater et Magistra si distingue, dunque, fondamentalmente dalle encicliche che l’hanno preceduta, eppure il problema che si pone alla considerazione critica del Papa è rimasto lo stesso. Oggi come allora, la questione è se sia possibile salvaguardare il valore e la dignità dell’uomo, l’inviolabilità della sua persona (nel senso preciso della dottrina sociale del cristianesimo, e la famiglia, prototipo della società, inseparabile da questa personalità inviolabile; come si posse salvaguardare libertà e giustizia nelle attuali condizioni della società industriale moderna senza impedire o arrestare il progresso materiale, riconosciuto anche dall’ultima enciclica come bene prezioso e premessa necessaria ad un’esistenza che non venga meno a quegli ideali. Non va taciuto ed è anzi bene sottolineare che sono queste appunto le questioni poste da decenni da quei sociologi ed economisti, che vengono chiamati con il nome - forse non molto appropriato, ma ormai non più sostituibile - di “neoliberali” e ai quali anche l’autore di queste pagine appartiene. Sono quelli stessi i cui pensieri e proposte hanno trovato particolare efficacia pratica attraverso l’esempio tedesco dell’economia di mercato. Né la risposta data da questi cosiddetti “neoliberali” alla domanda che abbiamo esposto sopra si distingue fondamentalmente da quella contenuta nell’enciclica. L’autore della Mater et Magistra si rende conto, non meno dei “neoliberali”, conte due siano le premesse indispensabili ad una giusta risposta al grande quesito: da un lato, il deciso rifiuto del socialismo, cioè di un ordinamento sociale il quale tende ad abolire gradualmente o completamente la proprietà privata dei mezzi di produzione e affida la direzione dei processi economici allo Stato; dall’altro, una mente aperta per tutte le possibilità di un rinnovamento dell’economia di mercato, che tuteli la dignità e il valore dell’uomo, libertà e giustizia, personalità e famiglia, contro gli innegabili pericoli della moderna società industriale. Occorre riconoscere questa stretta parentela tra la direzione, nella quale l’enciclica cerca una soluzione, e il mondo ideale del “neoliberalismo(24).

Sarebbe tuttavia fuorviante considerare l’Economia Sociale di Mercato, come un filone di pensiero a sé stante. In essa confluiscono altri filoni di pensiero; ed i legami e le analogie con altri studiosi, paradigmi, Paesi, epoche sono tanti e affascinanti. L’Economia Sociale di Mercato di matrice tedesca è certamente collegabile con l’opera di due grandi pensatori italiani, Luigi Einaudi e Luigi Sturzo, che non appartengono alla Scuola di Friburgo, ma che hanno posizioni largamente coincidenti (25) con essa, e che furono legati da rapporti di grande stima verso Erhard e Ropke, in particolare, che contraccambiarono. Ma per tanti aspetti potremmo collegarci con Carlo Cattaneo, con Antonio Rosmini, con l’illuminismo lombardo, con l’illuminismo napoletano, con le stagioni dell’Economia civile (così bene indagate da Bruni e Zamagni (26)), la cui età dell’oro si colloca nell’Italia del Quattrocento.

Concludendo un intervento su: “Responsabilità dell’imprenditore(27) ho affermato:

“È nella nostra storia che dobbiamo trovare le radici vere dell’impresa del terzo millennio. Dobbiamo liberarci dei pestilenziali modelli americani, culturalmente e moralmente devastanti, che abbiamo rifilato a molte generazioni per quasi cinquantanni. E riprendere, invece, i modelli dell’impresa toscana, lombarda, genovese, veneziana, quando l’imprenditore italiano era ai vertici mondiali ed insieme creava modelli di città, di benessere serio, di convivenza civile. Andiamo a Siena a riflettere come i grandi lanaioli e mercanti senesi abbiano, al contempo, creato grande ricchezza ed una grande cattedrale, un grande palazzo del popolo, una grande banca, un grande ospedale, Santa Maria della Scala, organizzazione esemplare per tutta Europa. Siena è la testimonianza viva che non esiste conflitto tra buona economia imprenditoriale e umanesimo civile, in uno sforzo continuo per tenere insieme economia, finanza, buon governo, arti, spiritualità, istituzioni sociali. Andiamo a riflettere sugli affreschi di natura civile sul Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti e di natura religiosa di Santa Maria della Scala. Il progetto “welfare” non nasce nell’ ‘800 o nel ‘900 ma nasce lì, quando istituzioni produttive (imprese), opere di assistenza sociale, cultura si saldano in un patto di buongoverno che dona frutti meravigliosi, dei quali ancora oggi beneficiamo. La responsabilità prima degli imprenditori è, oggi, quella di collaborare all’uscita da una concezione economica fine a se stessa che si è cacciata in un vicolo cieco e senza speranza, per ricostruire un nuovo modello di sviluppo economico, sociale, culturale, riaprendo ed aggiornando tanti esempi, stimoli, insegnamenti dei quali la nostra storia è così ricca”.

Ma proprio perché sono tanti i legami, gli intrecci, gli influssi reciprocamente fertili, due avvertenze si rendono necessarie. La prima è che l’Economia Sociale di Mercato di matrice tedesca è un filone di pensiero rigoroso, che va conosciuto nel suo specifico, senza farsi trascinare dalla suggestione delle parole. Troppi, superficialmente informati sul tema, pensano all’Economia Sociale di Mercato come ad una via per legittimare l’assistenzialismo, per allentare i rigori di una finanza pubblica severa, per addolcire e manipolare la concorrenza, per aiutare i poveracci.

Per la Scuola di Friburgo il mercato è, nella sfera che gli compete, elemento di ordine costituzionale, e lo Stato ha l’obbligo giuridico di assicurare che le regole di funzionamento di mercato non vengano manipolate, violentate, strumentalizzate dal potere economico, come invece avviene nei Paesi dominati dal turbo-capitalismo o neoliberismo. Gli scienziati sociali tedeschi dell’Ordoliberalismo si oppongono tanto all’abominio nazista quanto a quello comunista, in entrambi i casi, con al centro, lo Stato, e che vedono l’economia di mercato in una posizione subordinata; e propongono, invece, un sistema economico e sociale di stampo nettamente liberale: “basato sull’economia di mercato, sulla libera iniziativa, sulla lotta ai monopoli (tanto pubblici che privati) e sulla stabilità monetaria (28)”.

Essi vogliono che la concorrenza e la libertà d’impresa siano difese dal prevalere e dalla concentrazione del potere economico, attraverso una tutela costituzionale, all’interno di un rifiuto della subordinazione delle attività economiche ad una autorità centrale. Scrive Razeen Sally: “Dipende dallo Stato porre in essere e mantenere il quadro istituzionale di un ordine economico libero, ma esso non deve intervenire nei meccanismi del processo economico concorrenziale, ecco l’essenza dell’Ordungspolitik(29). In sostanza, un’impostazione molto simile alle riflessioni di Luigi Einaudi che, dopo aver illustrato il concetto di mercato con la deliziosa descrizione di una fiera di paese, e dopo aver avvertito che il mercato è un’invenzione sociale preziosa, perfezionata nei millenni, utilissima per gli scopi cui è destinata, ma non sufficiente, concluse con queste parole:

“Tutti coloro che vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe avere luogo se, oltre ai banchi dei venditori, i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario e il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno in fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari di campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere e sarebbe tutta diversa da quella che effettivamente è”. (30)

Ma neanche Adenauer accetterebbe una lettura che ponga al centro lo Stato, se è vero che, nel suo primo discorso pubblico del dopoguerra, quello all’Università di Colonia, nel marzo 1946, che è stato giustamente considerato il discorso fondante della nuova Germania e della nuova Europa (31), egli disse: “Siamo prima persone, cittadini, europei e poi tedeschi. Mai più lo Stato nazione, mai più lo Stato etico. Una Germania federale per un’Europa federale”. Lo Stato, secondo Adenauer, non doveva mai più porsi su un piano di superiorità rispetto alla persona, alla famiglia, alla libera attività economica. La libera iniziativa non era una concessione, ma un diritto primordiale dell’uomo. Mai più lo Stato avrebbe dovuto dominare e soffocare la persona e le società intermedie (32).

Del pari, nessuno dei pensatori dell’Economia Sociale di Mercato in senso lato (compresi Sturzo ed Einaudi), traccerebbe un qualsiasi legame tra l’Economia Sociale di Mercato e l’ipertrofico Stato italiano. Questa ipertrofia non proviene dall’Economia Sociale di Mercato, ma dal fascismo, dal corporativismo, dal socialistume cattolico di una componente influente della DC, che garantì la continuità delle istituzioni economiche fasciste, dall’assistenzialismo, dalla corruzione imperante, dall’imprenditoria assistita, dalla mancanza di legalità. Bene ha fatto Francesco Forte a lanciare un allarme sul tema, con un articolo intitolato: “Come evitare di far pasticci sull’economia sociale di mercato (33)”.

La seconda avvertenza è che proprio perché questi intrecci sono tanti, stimolanti e difficili, è necessario, almeno per me, concentrare l’attenzione solo su alcuni aspetti, nella speranza di riuscire a collocare un piccolo tassello che, insieme ad altri tasselli, potrà aiutare qualcuno in grado di farlo, a tracciare il grande mosaico di una nuova economia, da contrapporre ai paradigmi dominanti, perché, come scrive Luigino Bruni, nell’introduzione al citato libro di Zamagni: “gli economisti sono spesso accusati, e non sempre a torto, non solo di non aver saputo emettere la giusta diagnosi della malattia, ma anche, in non pochi casi, sbagliando la diagnosi di avere consigliato al paziente una terapia che si sta rivelando mortale”.

Io ho scelto, quindi, di restringere le mie riflessioni ad alcune relazioni tra l’Economia Sociale di Mercato e la Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica (DSC) per le seguenti ragioni. In primo luogo entrambe hanno vissuto un lungo periodo di declino, ed entrambe stanno invece vivendo, oggi, una stagione di rinnovata attenzione. Credo che la cosa non sia casuale, ma sia l’effetto, per entrambe, della crisi economica mondiale. In secondo luogo, la relazione tra alcuni concetti fondamentali dell’Economia Sociale di Mercato ed alcuni principi chiave della DSC, è stretta ed evidente. In terzo luogo, le due dottrine si rafforzano reciprocamente ed, insieme, possono aiutarci a dare una prospettiva all’Europa, contrastando le soverchianti forze del turbo-capitalismo e del neoliberismo materialista, violento e corrotto, che continuano a distruggere ogni speranza di vita degna di essere vissuta.

Pur così delimitato, il compito resta molto arduo, perché la DSC è dottrina ampia e di natura assai complessa. È perciò necessario delimitare ulteriormente e precisare il mio riferimento, anche su questo versante.

La DSC rappresenta l’insieme degli insegnamenti sociali e morali del pensiero cristiano: “La Dottrina Sociale della Chiesa trova la sua sorgente nelle Sacre Scritture a cominciare dal Libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo e negli scritti apostolici. Essa appartiene fin dall’inizio all’insegnamento della Chiesa stessa, alla sua concezione dell’uomo e della vita sociale e, specialmente, alla morale sociale elaborata secondo le necessità delle varie epoche. Questo patrimonio tradizionale è poi stato ereditato e sviluppato dall’insegnamento dei pontefici sulla moderna “questione sociale” a partire dall’Enciclica Rerum Novarum” (Laborem exercens, n. 3).

La DSC appartiene al campo della teologia e in particolare alla teologia morale. Ma essa è anche “un insegnamento pratico, che ha per fine l’azione più che la sola conoscenza (34). Ciò è particolarmente vero per la moderna DSC che ha avuto spesso molta influenza, almeno nella società europea; e ciò vale in particolare per la Rerum Novarum.

Le mie riflessioni si limitano dunque alla moderna DSC, ed in particolare ai suoi temi più legati alla struttura economico-sociale. E per restringere ulteriormente il focus, mi concentrerò sulla DSC come emerge dal Concilio Vaticano II, che ha archiviato tante storiche incomprensioni tra Chiesa e mondo moderno, incomprensioni che, dunque, dobbiamo archiviare anche noi - e in particolare su due documenti: la Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et Spes (1965) e l’enciclica Centesimus Annus (1991) che, a mio avviso, segnano il punto più alto e decisivo del colloquio tra DSC, mondo contemporaneo ed economia imprenditoriale (35).

Dignità della persona

Ma iniziamo dalla Costituzione tedesca, profondamente influenzata dalla stessa visione che alimenta il pensiero dell’economia sociale di mercato e della dottrina cristiana. Il primo articolo della Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania (Grundgesetze) è rubricato “Difesa della dignità della persona”, e il primo paragrafo recita: “La dignità della persona umana è inviolabile. Rispettarla e proteggerla è dovere di ogni potere statuale(36).

Trovo bellissimo che una Costituzione di un Paese europeo esordisca enunciando questo fondamentale principio (37). Dietro questo articolo c’è la rottura con le tradizioni di pensiero illiberale e statalista che tanto e tanto a lungo hanno pesato sulla cultura tedesca; c’è la ribellione ed insieme il confiteor contro gli orrori del nazionalsocialismo; ci sono le strazianti immagini dei sopravvissuti dei campi di concentramento, che il generale Eisenhower fece largamente distribuire affinché non se ne perdesse la memoria. Ma c’è sicuramente anche il pensiero dell’Ordoliberalismo, e c’è la DSC che della dignità della persona umana (fatta ad immagine di Dio), ha fatto uno dei suoi pilastri senza mai nutrire la minima incertezza in materia (38).

Come dice il Concilio Vaticano II, è essenziale che la persona conservi sempre “un irrinunciabile desiderio di dignità(39) perché “l’uomo è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” (Gaudium et Spes, 63). È questo un tema dove gli incroci fertilizzanti sono stati tanti (40). Ma certamente siamo qui in presenza di uno dei collegamenti più forti e rilevanti tra Economia Sociale di Mercato e DSC, che possono, forse, proprio unendo le forze, arginare e contrastare quell’ideologia ancora dominante, dell’individualismo radicale e delle democrazie predatorie.

Destinazione universale dei beni e diffusione della proprietà

Un secondo cardine della DSC è il principio della destinazione universale dei beni. Ed anche qui ci troviamo ad un crocevia dove la Costituzione tedesca, ispirata dall’Ordoliberalismo, si incrocia con un altro principio fondamentale della DSC.

La DSC è sempre stata a favore della proprietà privata, come garanzia della libertà, dignità e responsabilità della persona. Ma, al contempo, ha sempre levato il suo monito contro la eccessiva concentrazione della proprietà ed a favore di una proprietà diffusa ed ha sempre richiesto che la proprietà venga utilizzata non solo con il rispetto degli altri (neminem ledere) ma nella consapevolezza che i beni in proprietà hanno una sorta di ipoteca a favore della destinazione universale degli stessi. Così la “Gaudium et Spes”:

“Perché la proprietà e le altre forme di potere privato sui beni esteriori contribuiscono alla espressione della persona e inoltre danno occasione all’uomo di esercitare il suo responsabile apporto nella società e nella economia, è di grande interesse favorire l’accesso a tutti, individualmente o in gruppo, a un certo potere sui beni esterni. Le proprietà private assicurano a ciascuno una zona indispensabile di autonomia personale e familiare e devono considerarsi come un prolungamento necessario della autorità umana. Infine, stimolando l’esercizio della responsabilità civile, esse costituiscono una delle condizioni delle libertà civili… Ogni proprietà privata ha per sua natura una funzione sociale che si fonda sulla comune destinazione dei beni”.

Questa posizione è perfettamente coincidente con quella dell’Ordoliberalismo. La differenza è, forse, nel fatto che la Chiesa non ha ben compreso, per lungo tempo, che un’economia basata sulla proprietà privata è necessariamente anche una economia basata sul mercato. Anche questa posizione sfocia nella Costituzione tedesca e precisamente nei primi due paragrafi dell’art. 14, che recitano (41):

“(1) La proprietà e il diritto di successione sono garantiti. Il loro contenuto ed i loro limiti sono fissati dalla legge. (2) La proprietà crea degli obblighi. Il suo uso deve anche essere utile all’insieme della collettività”.

Questa concezione della proprietà, presidio della libertà e dell’iniziativa individuale ma inserita in una precisa filosofia pubblica della responsabilità, e caratterizzata da un’ampia diffusione è, in realtà, una teoria la cui essenza va alle radici del pensiero democratico occidentale. Già Aristotele insegnava: “Ordunque è meglio, come ben si vede, che la proprietà sia privata ma si faccia comune nell’uso: abituare i cittadini a tal modo di pensare è compito particolare del legislatore”.

E leggiamo queste parole:

“La terra e tutte le cose che essa contiene sono la proprietà generale dell’umanità intera, a esclusione delle creature, per un dono immediato del Creatore. La legislazione ha universalmente promosso i grandi scopi di una società civile, la pace e la sicurezza dei singoli, applicando la saggia massima di assegnare un determinato e legittimo proprietario ad ogni cosa suscettibile di proprietà (…). Ma il titolo ultimo non è nelle mani del proprietario, ma in quelle della “umanità”, del popolo come unità organica (…). La motivazione delle leggi che stabiliscono la proprietà privata non sta nel soddisfare gli istinti di possesso dell’uomo, ma nel promuovere i grandi scopi della società civile che comprendono la pace e la sicurezza degli individui. Siccome il proprietario legittimo fa uso di un bene limitato che spetta necessariamente a tutti gli uomini, egli non può considerarsi il sovrano assoluto del suo possesso, né può esercitare un potere illimitato e arbitrario. Avrà dei doveri che corrispondono ai suoi diritti”.

Immagino che molti inquadreranno queste parole, ad esempio, nell’ambito della Dottrina Sociale della Chiesa. Forse qualcuno le collocherà nel pensiero del socialismo riformista. Credo che molti saranno sorpresi nell’apprendere che queste parole sono di un famoso e influente giurista inglese che, con la terminologia odierna, chiameremmo conservatore, di formazione classica e liberale e furono scritte verso la metà del 1700.

Perché sorpresi? Perché scriveva in un’epoca nella quale il diritto di proprietà, insieme alla sicurezza della persona e alla libertà, componeva la triade dei “diritti assoluti”, del cittadino inglese. Ed è interessante osservare, che anche questo giurista, che era tutto eccetto che un rivoluzionario, inizia la sua analisi definendo il diritto di proprietà come diritto assoluto. Ma appena si inoltra nell’analisi concreta di tale diritto “esaminandone più profondamente i rudimenti e le basi su cui giustificarlo razionalmente”, appena, dunque, anch’egli si incontra con la tematica dei fini come legittimazione del diritto che sta analizzando e quindi anche come chiave per disegnarne il contenuto e le connesse attività, sviluppa le sue conclusioni nel senso sopra detto.

Ancora una volta un’attività e un diritto individuale, questa volta di forte contenuto economico, trovano in una prospettiva di utilità pubblica, la loro legittimazione e i loro limiti, cioè dei diritti e dei doveri, e dunque il potere e la connessa responsabilità.

Sul piano della teoria dell’impresa, i migliori studiosi della materia non hanno mai dubitato che la gestione di un’impresa non sia un fatto esclusivo e privato degli azionisti, ma assolva una funzione generale di sviluppo.

E il presidente degli USA Woodrow Wilson, affermava: “Non può dirsi correttamente che una moderna società per azioni basi i suoi diritti ed i suoi poteri sui principi della proprietà privata. I suoi poteri derivano totalmente dall’ordinamento. Le grandi società possono correttamente dirsi un bene comune”. (42) E nello stesso senso molti altri.

Ma soprattutto negli ultimi trentanni le appassionate parole dei Ròpke e degli Einaudi contro la concentrazione della proprietà e della ricchezza, le raccomandazioni della DSC per un uso responsabile della proprietà, le sane teorie sull’impresa come soggetto di sviluppo collettivo, sono state più che ignorate, irrise e totalmente rovesciate. La concentrazione della ricchezza e del potere economico non solo ha raggiunto livelli mai prima raggiunti, ma è diventata un mito e un obiettivo dichiarato, ed il profitto, anzi, il “capitai gain”, è diventato misura di ogni cosa (altro che l’antico detto: “omnium rerum mensura homo”). Le imprese sono state poste al servizio esclusivo degli interessi degli azionisti (secondo la teoria del “maximization of shareholder value”, una delle teorie più devastanti degli ultimi 60 anni), la speculazione finanziaria, liberate da tutte le regole che la inquadravano ed, in parte, giustamente, imbavagliavano, è diventata selvaggia, ed è oggi, il vero, anche se negativo, “dominus” del mondo, facendo fare al sistema, sul piano culturale ed ideologico oltre che operativo, un salto indietro di cento anni così rilegittimando il giudizio che, allora, pronunciò il presidente USA Woodrow Wilson: “Il grande monopolio di questo Paese è quello del denaro”. I governi occidentali, individualmente ma anche come embrione di comunità internazionale (G20) sono spinti in posizione subalterna al potere finanziario, incominciando da quello degli USA e balbettano, impauriti e senza dignità.

Questo potere finanziario, diabolico e irresponsabile, queste autentiche strutture di peccato, ci porteranno, di crisi in crisi, alla rovina totale. Per questo bisogna unire le forze della ragione, della civiltà, della fede e della religione, della democrazia, della cultura, contro questo mondo guidato da finanzieri irresponsabili che formano un oligopolio, che impropriamente chiamiamo mercato. Ma ciò che è necessario, prima di tutto, è un mutamento profondo dei paradigmi economici dominanti. Altro che legittimarli e proteggerli come fa la grande maggioranza degli economisti (43). Ma questo passaggio non può realizzarsi se rimaniamo rinchiusi nell’armamentario concettuale economico tradizionale. È necessario uno sguardo ed un’ispirazione molto più ampia. È necessario un salto di civiltà e quindi dobbiamo mobilitare insieme filosofia e religione, diritto, economia e sociologia, fede e ragione (44), pensiero democratico e pensiero sociale, nella prospettiva di un neoumanesimo globale da contrapporre al neoliberismo individualista.

Stato sociale e principio di solidarietà

Nella Costituzione tedesca troviamo un altro incrocio cruciale tra economia sociale di mercato e DSC. Lo troviamo nell’art. 20 (1) (45), un articolo fondamentale insieme al già citato art. 1, sulla dignità dell’uomo come valore inalienabile, tanto che entrambi godono, grazie all’art. 79,3 della Costituzione, della c.d. garanzia dell’eternità (“Ewigkeitendgarantie”), in quanto i loro principi non possono essere mutati da nessuna maggioranza parlamentare: “La repubblica federale tedesca è uno stato democratico e sociale”. L’articolo 20 (1) contiene i cinque pilastri dell’ordinamento costituzionale della Germania, che è: una repubblica, una democrazia, uno stato di diritto, uno stato federale, uno stato sociale. Ai fini della nostra riflessione mi concentrerò sull’ultimo pilastro: la Germania è costituzionalmente (e senza possibilità di modifiche) uno stato sociale.

Le radici dello stato sociale sono molto antiche in Germania e non sono state certo inventate dalla dottrina dell’Ordoliberalismo, né dalla Costituzione del 1949. Anche il nazismo pretendeva di essere uno stato sociale e, in un certo senso, limitatamente ai suoi membri, lo era. Ma la caratteristica di stato sociale non va vista isolatamente, bensì insieme agli altri pilastri della Costituzione tedesca: stato repubblicano, democratico, di diritto, federale, sociale (si sarebbe portati a precisare: e quindi stato sociale). Molti ordinamenti, possiamo dire la maggioranza in Europa, pur senza definirsi esplicitamente tali, sono concretamente organizzati con forte impronta di stato sociale. Naturalmente, le caratteristiche concrete con le quali l’ordinamento realizza questa qualità possono essere varie e variare nel tempo. Ma che una Costituzione riconosca, come caratteristica generale di uno Stato l’essere sociale, non è né comune né senza conseguenze. È una scelta di campo, definitiva, pur nel mutevole atteggiarsi delle soluzioni concrete. Vuol dire che il principio della solidarietà sociale, principio fondamentale della DSC, (Sollicitudo rei socialis, 38-40), insieme al connesso principio di sussidiarietà, diventa una direttiva non discutibile per il legislatore ordinario e per i reggitori. Si tratta, in questo caso, di un obiettivo costituzionale rivolto ai reggitori e che non fa nascere precisi diritti del singolo. Ma è un obiettivo di grande rilievo che va, come già detto, visto in stretto collegamento con l’art. 1,1 sulla dignità della persona.

Su questa radice costituzionale della solidarietà sono innestate istituzioni tipicamente tedesche, come la “Mitbestimmung” (la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza delle imprese di maggiori dimensioni), che sono presidio importante della tenuta democratica del paese. Anche in Germania negli anni recenti si è verificato un forte processo di concentrazione della ricchezza, ma in misura più moderata che in altri Stati (come USA, Inghilterra, Italia). Anche in Germania, negli anni recenti della globalizzazione, si sono scatenati forsennati attacchi, soprattutto di matrice internazionale, per distruggere ed eliminare lo Stato sociale. Ma il presidio costituzionale e la tradizione culturale del Paese hanno fatto argine in misura molto più forte e soprattutto in modo molto più fondato ed ordinato, che in altri paesi pasticcioni come l’Italia, a questo attacco forsennato che, in fondo, null’altro è che un attacco alla democrazia e alla dignità della persona. Come scrive un brillante commentatore tedesco (46):

“Secondo la Costituzione “l’economia è al servizio dell’uomo e non il contrario. Concretamente: le banche non devono, in prima linea, spingere sempre più in alto il loro profitto, costi quello che costi, ma piuttosto devono, ad esempio, offrire finanziamenti il più possibile favorevoli, affinché imprese intraprendenti realizzino nuove iniziative (47). Questo intendiamo con l’espressione economia sociale di mercato nel senso della Costituzione. Anche se questo concetto non è esplicitamente incardinato nella Costituzione, questa economia sociale di mercato corrisponde al disegno della nostra Costituzione… Ciò è stato formulato, in termini generali, dall’arcivescovo di Monaco, Reinhard Marx (che non è un discendente di Carlo Marx): “l’economia sociale di mercato è espressione di una civiltà. Molti l’hanno scordato(48)… L’uomo di chiesa, Marx, rappresentante della dottrina sociale della Chiesa cattolica, ci ricorda correttamente i fondamenti etici di una buona economia, cioè di un’economia al servizio dell’uomo. Egli induce a riflettere dicendo. “Un capitalismo senza etica e senza un solido ordinamento giuridico è ostile all’uomo”. E un’affermazione che coincide perfettamente con i principi della nostra Costituzione. Purtroppo, non si può negare l’impressione che, nei piani alti, di banche e grandi imprese, anche tedesche, si è, nel tempo, diffuso un pensiero che chiaramente ignora del tutto questa configurazione della Costituzione. Naturalmente l’economia non può e non deve farsi carico dei compiti propri della politica. Ma le imprese non sono in esistenza solo per assolvere scopi propri e per servire gli interessi di manager ed azionisti. “La proprietà crea degli obblighi. Il suo uso deve anche essere utile all’insieme della collettività”. Questi due paragrafi dell’articolo 14 della Costituzione è tutto ciò che sta scritto nel testo costituzionale per illustrare che non è vero che, oltre al profitto, l’economia non deve pensare ad altro. Certamente il profitto è importante, ma come mezzo non come scopo, affinché le imprese siano utili alla collettività… Questo è il cuore ragionevole di una economia umana, qui si radica la responsabilità delle imprese in una economia sociale di mercato… La Costituzione è un testo giuridico nazionale, ma, se si vuole, con una prospettiva mondiale. La sua validità si limita al territorio della repubblica federale, ma essa contiene indirizzi che possiedono una valenza per costruire un ordine economico internazionale, un capitalismo con regole e con rischi governabili… ogni mercato in ogni città è ancora oggi circondato da altre istituzioni: il comune, l’asilo, la scuola, l’ospedale. E spesso nel mezzo della piazza del mercato, c’è la Chiesa. Questi sono solo alcuni esempi che servono ad illuminare di cosa una comunità ha bisogno, oltre al mercato, per poter durare nel tempo (49)… La giustizia sociale non è un lusso che ci possiamo concedere solo nei tempi facili, ma un diretto imperativo costituzionale che resta in vigore anche nei tempi difficili”.

La Costituzione è cosciente che non si può, da soli, percorrere questa ardua via, e lo testimonia l’art. 23,1,1, che recita: “La repubblica federale tedesca è impegnata a collaborare alla realizzazione di un’Europa unita, attraverso l’Unione Europea, che sia fondata sui principi di uno Stato democratico, di diritto, sociale e federale secondo il principio di sussidiarietà e che garantisca, in essenza, diritti simili a quelli garantiti da questa Costituzione. Di conseguenza la repubblica federale con legge approvata dal parlamento federale può trasferire poteri sovrani(50). Ma si veda anche il preambolo (51)

Certamente tante sono le difficoltà concrete per la realizzazione corretta ed efficiente, di uno stato sociale. Ed in primo luogo si pone la necessità di distinguere tra stato sociale e stato assistenziale, quale è quello italiano. Lo stato sociale, correttamente inteso, non perde efficienza, come temono molti economisti, perché la socialità e la solidarietà sono componenti necessari dell’efficienza duratura. Senza solidarietà l’unica efficienza possibile è a breve termine, ed è quella dei campi di concentramento.

Lo stato assistenziale è altra cosa dallo stato sociale, così come è estraneo sia all’economia sociale di mercato, che alla DSC. È persino difficile citare le tante fonti della DSC a sostegno di questa affermazione, per cui mi rifarò ad una fonte meno nota: i magnifici discorsi che Giovanni Paolo II pronunciò a Napoli nel corso della sua visita pastorale nel novembre 1990. Parlò alla cittadinanza e singolarmente a tutte le principali componenti della stessa. Il centro del suo messaggio, ai fini del tema che ci interessa, è riassunto nei seguenti passaggi:

-        “Occorre che la società civile napoletana nel suo insieme, sia protagonista del suo stesso sviluppo; che il popolo di Napoli coltivi una forte coscienza sociale, e quale custode dei ricchi valori della sua tradizione, si faccia promotore di un fecondo rapporto con le istituzioni”.

-        “Ad ogni diritto corrisponde un dovere. In questo caso ogni istanza sociale è chiamata ad offrire il suo supporto: le strutture politiche ed amministrative, il mondo del commercio e dell’industria, i lavoratori e le associazioni che li rappresentano. In tali impegni consiste la solidarietà che necessariamente deve presiedere la vita sociale”.

-        “Lo sviluppo del Mezzogiorno vi sarà, quando si sprigioneranno le energie locali. Voi imprenditori dovete essere in prima fila in questo sforzo”.

Ma mi piace anche ricordare la Mater et Magistra (Giovanni XXIII, 1961), che è tutta un inno all’”attitudine di responsabilità” che l’enciclica auspica diffusa a tutti i livelli. Lo Stato ha il dovere di favorire lo sviluppo di un sistema solidale ma rigorosamente secondo il principio di sussidiarietà. Riproduco qui una pagina del mio scritto citato dedicato alle encicliche sociali, relativa alla Mater et Magistra:

““Anzitutto va affermato che il mondo economico è creazione dell’iniziativa personale dei singoli cittadini”. E la frase con cui inizia la parte II. Il mondo economico non è frutto né del capitale, né del proletariato. E frutto dell’iniziativa personale. Dovere dello Stato, dell’ordinamento, della morale, è che il mondo si sviluppi tenendo conto del bene comune. Ma il bene comune è il frutto dell’iniziativa personale o non è. Mai in un’Enciclica, né prima né poi, si esprimerà, con tanta chiarezza, il valore positivo dell’iniziativa personale in campo economico (cioè di quella che io chiamo economia imprenditoriale).

  • Questo valore non viene radicato su premesse mediocri, ma, a sua volta, su un più elevato valore, quello della libertà e su quello, connesso, dello sviluppo: “L’esperienza infatti attesta che dove manca l’iniziativa personale dei singoli vi è tirannide politica; ma vi è pure ristagno dei settori economici diretti a produrre sopratutto la gamma indefinita dei beni di consumo e dei servizi che hanno attinenza oltre che ai bisogni materiali, alle esigenze dello spirito: beni e servizi che impegnano, in modo speciale, la creatrice genialità dei singoli”.

~ Un’economia imprenditoriale moderna richiede un ruolo preciso dei poteri pubblici, con un’azione che “ha carattere di orientamento, di stimolo, di coordinamento, di integrazione”. Meglio non si poteva dire, con formula assai incisiva, sul ruolo dei pubblici poteri in un’economia mista. Infatti: “dove fa difetto la doverosa opera dello Stato vi è disordine insanabile, sfruttamento dei deboli da parte dei forti meno scrupolosi, che attecchiscono in ogni terra e in ogni tempo”. (Essi non attecchiscono quindi solo nelle desolale terre del capitalismo, del liberalismo, del modernismo o di qualche altro “ismo”, ma in ogni terra e in ogni tempo. E solo su un’impostazione realistica ed empirica di questo tipo che si può inserire anche la teoria della responsabilità imprenditoriale e manageriale).

-        L’intervento dei pubblici poteri va, tuttavia, rigorosamente impostato secondo il principio di sussidiarietà, che viene qui riportato al suo grande valore istituzionale, politico, giuridico, morale. “Ma dev’essere sempre riaffermato il principio che la presenza dello Stato in campo economico, anche se ampia e penetrante, non va attuata per ridurre sempre più la sfera di libertà dell’iniziativa personale dei singoli cittadini, ma anzi per garantire a quella sfera la maggior ampiezza possibile nella effettiva tutela, per tutti e per ciascuno, dei diritti essenziali della persona; fra i quali è da ritenere il diritto che le singole persone hanno di essere e di rimanere normalmente le prime responsabili del proprio mantenimento e di quello della propria famiglia; che implica che nei sistemi economici sia consentito e facilitato il libero svolgimento delle attività produttive”.

-        Tra l’iniziativa personale e l’azione dei pubblici poteri, si è andata sviluppando, ed è un fenomeno di grande rilievo, la rete della socializzazione, “intesa come progressivo moltiplicarsi di rapporti nella convivenza, con varie forme di vita e di attività associata, e istituzionalizzazione giuridica”. Questa “socializzazione così intesa apporta molti vantaggi”. Quel “così intesa” sembra voglia dire: socializzazione delle persone e non collettivizzazione dei beni (socializzazione, dunque, e non socialismo; è questa differenza la chiave di volta). Ma è essenziale che su questa spinta verso la socializzazione non si incardinino impropri poteri burocratici. È essenziale cioè che “i corpi intermedi e le molteplici iniziative sociali... godano di un’effettiva autonomia nei confronti dei poteri pubblici”. Queste sono le linee del sistema che i travagli del secolo hanno generato e che va sviluppato e migliorato. E ciò chiama tutti i responsabili a una nuova “attitudine di responsabilità”. Perché si sviluppi questa “attitudine di responsabilità” è necessario che nei portatori di responsabilità “anche se nel loro agire sono tenuti a riconoscere e rispettare la legge dello sviluppo economico e del progresso sociale”, “sia presente e operante una sana concezione del bene comune”. E per la prima volta si dà anche una definizione della concezione del bene comune, come della “concezione che si concreta nell’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono agli esseri umani lo sviluppo integrale delle persone”. Una definizione efficace e pregnante, che sarà ripresa, sostanzialmente, da Paolo VI nella Populorum Progressio.”

Questi concetti sarebbero totalmente sottoscritti da tutti i protagonisti dell’economia sociale di mercato. Non è casuale che Wilhelm Ropke, economista luterano, fosse un forte estimatore della Mater et Magistra.

Guardare a ciò che unisce e non a ciò che divide

Altri incroci tra le dottrine dell’Ordoliberalismo e la sua realizzazione nella forma di economia sociale di mercato e la DSC sono, certamente, identificabili, come scrive Wilhelm Ropke (52).

Ma forse è più utile fermarsi ai tre pilastri che abbiamo discusso: dignità della persona, destinazione universale dei beni e diffusione della proprietà, stato sociale e principio di solidarietà. In relazione a questi tre pilastri abbiamo identificato importanti coincidenze, sovrapposizioni, unità di ispirazione e di obiettivi. Ma quale è l’utilità di rilevare ciò? Alcuni elementi di risposta sono già emersi nel corso della nostra analisi. Ma ora vorrei tentare una risposta più organica e più approfondita, a questa domanda fondamentale. Con la Chiesa sono state vissute, a lungo, profonde incomprensioni con il pensiero moderno e liberale sui temi dell’economia. Inutile negarlo. Dalla parte della Chiesa (ma mai nelle encicliche!) si è a lungo coltivata una forte preferenza per le soluzioni di impronta collettivista e socialista ed una profonda diffidenza verso il mercato e verso l’impresa ed i suoi meccanismi. Dalla parte dell’economia liberale si è, invece, alimentata una forte ignoranza della DSC ed una sorta di disprezzo intellettuale verso la parola della Chiesa. Solo pochi spiriti veramente laici e liberi, come l’economista luterano Wilhelm Ropke, hanno avuto la forza morale e intellettuale per scrivere parole come queste: “Non sarebbe una cattiva idea quella di scrivere la storia economica della nostra epoca cercandone i riflessi nei messaggi che la Santa Sede ha promulgato al mondo dall’inizio dell’era industriale, per applicare la dottrina sociale della Chiesa cristiana ai problemi posti dalla moderna società industriale. Fondamentalmente questa dottrina sociale è rappresentata da una filosofia dell’uomo e della società immutabile come lo stesso insegnamento cristiano - umano, nato dal singolare connubio della filosofia antica con il cristianesimo. È stata questa dottrina a creare le basi sulle quali si è formata la cultura occidentale e a darci quei principi che non possiamo abbandonare senza rinunciare a questa cultura: cattolici o protestanti, fedeli o agnostici, se non vogliamo macchiarci di tradimento verso il patrimonio spirituale e morale dell’Occidente, dobbiamo considerare quei principi tanto incrollabili da non poterli nemmeno discutere”. (53)

E questa profonda ignoranza spiega anche perché oggi si stanno moltiplicando scritti che si rivolgono alla Chiesa, come se essa fosse ancora ferma a prima della Rerum Novarum. Scritti che spiegano i fondamentali del mercato, perché il cristianesimo sia “naturaliter” liberale, perché il profitto è necessario e via dicendo. Si rispolverano pagine gloriose di Von Mises (1920), di von Hayek (anni ‘40) per spiegare alla Chiesa che il socialismo non funziona senza rendersi conto che è ridicolo spiegare ciò, nel 2015, ad una Chiesa che è stata guidata da Giovanni Paolo IL Ma già il Leone XIII della Rerum Novarum aveva le idee abbastanza chiare in materia (anche se i conservatori del tempo, inorriditi, dissero: “Il Papa è diventato socialista, le onde della vita moderne sono montate fino al cortile di San Damaso”). E chiare le idee le aveva anche Pio XI che, nel 1931, affermò: “Nessuno può essere buon cattolico a un tempo e vero socialista” (Quadragesimo Anno).

Allora perché continuare a insistere su antichi temi, totalmente superati dalla storia? Ma perché non leggete la Gaudium et Spes? Perché non leggete la Centesimus Annus e soprattutto il fondamentale paragrafo 42:

“Ritornando ora alla domanda iniziale, si può forse dire che, dopo il fallimento del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo, e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi che cercano di ricostruire la loro autonomia e la loro società? È forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e civile? La risposta è ovviamente complessa. Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa” di “economia libera”. Ma se con “capitalismo” si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa(54).

Perché non ripartiamo da qui e non cerchiamo, partendo da qui, di affrontare insieme i problemi cruciali del nostro tempo, guardando a ciò che unisce e non a ciò che divide. Non vorrei essere frainteso. Il lavoro storico di ricupero dei vecchi testi e il lavoro culturale per interconnetterli tra loro e con il nostro tempo, è prezioso. Ma accanto ad esso bisogna guardare al presente ed al futuro perché la casa brucia e i pericoli che incombono su di noi e sui nostri figli e nipoti sono altissimi.

Se il paragrafo 42 rappresenta la definitiva accettazione da parte della DSC (dopo che grande strada era già stata percorsa, soprattutto nella Rerum Novarum, nella Mater et Magistra, nella Gaudium et Spes) dell’”economia di impresa” e dell’”economia libera” (e, per fortuna, questa acquisizione non è stata messa in dubbio dalla Centesimus Annus, né dalle encicliche successive), l’ultima parte di questo paragrafo è profetico. In mancanza di un “solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale” e di “un centro etico e religioso”, allora si fuoriesce dall’economia d’impresa o dall’economa libera e si entra in una giungla capitalista (per quello che vuol dire questo termine ambiguo), che impropriamente chiamiamo mercato. Qui DSC ed economia sociale di mercato coincidono. E qui entrambe condannano ciò che è avvenuto negli ultimi venti anni, perché ciò che il Papa condanna è esattamente ciò che è avvenuto dopo il 1991, e dunque il paragrafo 42 è profetico.

Oggi il problema non consiste più, dunque, nello spiegare pazientemente e didascalicamente alla Chiesa che cosa è l’economia di mercato, ma nel prendere atto che continuiamo a chiamare impropriamente mercato, oligopoli manipolati e predatori, gestiti in gran parte da manigoldi che si muovono al di fuori non solo di ogni morale ma anche di ogni ordinamento giuridico (“Kein Market ohne Rathaus”). E se ciò non fosse come sarebbe possibile che gli alti dirigenti delle 15 principali banche in USA ed in Europa segnano, nel 2011, un aumento medio dei compensi del 12 per cento dopo un aumento del 36 per cento nel 2010, e ciò in un anno in cui mediamente rendimenti e valori delle rispettive banche sono fortemente diminuiti? (55) Come è possibile che personaggi come Rajat Gupta, già direttore di Goldman Sachs e ex capo della McKinsey, venga rinviato a giudizio per “insider trading”? (56). E che il banchiere texano Alien Stanford venga condannato a 110 anni di prigione per frode? (57) E come è possibile che cinque grandi banche come J.P. Morgan Chase, Barclays, Royal Bank of Scotland, Citigroup e UBS concordino con il Dipartimento di Giustizia USA di pagare una multa di 5,6 miliardi di dollari dichiarandosi colpevoli di manipolazioni dei cambi (2015). Per analoga accusa Deutsche Bank ha pagato una multa di 2.5 miliardi di dollari. In totale le multe concordate dalle grandi banche con il dipartimento di giustizia americano per la loro “mala gestio” superano i 16 miliardi di dollari. Ma attenzione: queste somme vengono pagate per “comprare” l’immunità penale per sé e per i propri dipendenti. È quindi uno dei culmini della finanziarizzazione dell’economia: la giustizia acquistata. Invano associazioni civili americane si sono battute contro questo uso del denaro per comprare la giustizia. Mi sono limitato a pochi esempi, ma la processione continua ininterrottamente. E questi avvenimenti di cronaca non sono solo la manifestazione più vistosa di una degenerazione che prima ancora che morale, è intellettuale. Sono i segnali che sono i parametri fondamentali del sistema e del pensiero economico che vanno profondamente riformati e rifondati.

In una conferenza pubblica (giugno 2012) il governatore della Banca d’Inghilterra, uomo delle istituzioni, di grande prudenza ma, evidentemente, non negato alla verità, si è rivolto ai vertici delle quattro principali banche della City (Barclays, Royal Bank of Scotland, controllata tra l’altro dal governo inglese, Hsbc e Lloyds) accusandoli di “trattamento meschino dei clienti” e di “manipolazione fraudolenta” definendoli: “cinici, manipolatori e strapagati”. Sulla stessa riga si è messa la Financial Services Authority, l’organismo di vigilanza del grande mercato londinese ed anche forse l’unico organismo di vigilanza che ha dato qualche contributo serio per migliorare il sistema.

Come ha scritto Jeffrey D. Sachs, Columbia University, 2012:

“Il degrado viene dai vertici. In 25 anni di docenza universitaria ho visto un peggioramento etico anche nelle grandi facoltà di élite degli Stati Uniti: il potere delle grandi imprese ha fiaccato il senso etico tra molti professori. Ovunque vediamo un’epidemia di comportamenti criminali e corrotti ai vertici del capitalismo. Gli scandali bancari non sono delle eccezioni né degli errori, sono il frutto di frodi sistemiche, di un’avidità e di un’arroganza sempre più diffuse. Anche in Europa ormai le banche contano più dei governi. Nel mondo s’impongono i metodi cinici alla Rupert Murdoch. Non è una decadenza generalizzata della società civile, è un fenomeno che riguarda prevalentemente le élite, sono loro ad avere un senso del privilegio, dei diritti acquisiti. Voi avete Berlusconi, in altre nazioni il connubio avviene in modo indiretto; il risultato però è sempre di creare nel pubblico un rumore di fondo, confusione e distrazione dai problemi veri”.

La partita in gioco non è, dunque, più fatta di minuetti sui concetti astratti di mercato o di profitto. La partita in gioco è se e come riusciremo a salvare la democrazia, lo stato di diritto, un decente benessere; se riusciremo a ricostruire un’economia umana ed al servizio dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini; se riusciremo a salvare lo stato sociale alleggerito di tutte le degenerazioni assistenzialistiche; se sapremo far regredire le dimensioni mostruose dell’economia pubblica assunte dalla maggior parte degli Stati e certamente dall’Italia; se sapremo preservare il cammino verso uno Stato federalista sovranazionale; se sapremo riportare il concetto di responsabilità personale nel ruolo essenziale che gli compete.

È un compito immane per il quale abbiamo bisogno non solo di visione e di capacità creativa proiettate sul futuro, ma abbiamo bisogno di ricuperare, come guida e puntello, tutto ciò che di buono ci riviene dal passato. E certamente la DSC e l’economia sociale di mercato, singolarmente ed ancor più se unite tra loro, appartengono a questa categoria.

E, tanto per incominciare, iniziamo a studiarle entrambe seriamente.

Ma tra le tante coincidenze tra le due, vi sono anche differenze. La differenza più importante è che l’Economia Sociale di Mercato di matrice tedesca è radicata nei confini tedeschi. La Germania è una democrazia e un’economia sociale di mercato che funzionano in modo eccellente all’interno. Verso l’esterno, compreso il resto dell’Europa, la Germania, è ritornata a muoversi in chiave nazionalista e tribale. Per questo non riesce ad esercitare una vera leadership. La DSC è invece un linguaggio universale che parla a tutti gli uomini ed a tutti i continenti. Essa parla persino alla Scuola di Chicago ed ai suoi innumerevoli premi Nobel.

Mi scrive, in una corrispondenza privata, un germanista che molto stimo (58), a seguito di mie osservazioni di plauso ad un suo interessantissimo libro: “La DSC è fondamentale, in Italia, perché è la Chiesa la depositaria dei valori identitari della società italiana. È un’idea di solidarietà sociale può essere veicolata solo attraverso l’autorità della Chiesa. Non a caso tutto il dopoguerra è stato all’insegna dell’aggettivo “cristiano”, che coinvolgeva non solo la DC, ma anche il PCI, cioè tutta l’opinione pubblica italiana. Il sentire solidale della comunità va, per così dire, battezzato, se no perde legittimità. Dovendo introdurre in Italia il modello tedesco - perché questo vuol dire “euro” - è indispensabile dargli credibilità. E questo può venire solo dal pensiero della Chiesa sulla questione sociale. Il “servire”, da solo, come espressione del dovere civico in Italia non basta: va coniugato attraverso categorie metastoriche e trascendenti. Insomma, l’immanenza luterana è estranea al mondo mediterraneo. E i dubbi tedeschi nascono dal fatto che questo loro modo di pensare non è trasferibile nel mondo mediterraneo. Di certo è così; ma veicolare quella disciplina comportamentale attraverso categorie di pensiero proprie della tradizione storica di questi paesi, questo sì che è possibile. Il limite della dirigenza tedesca - non di tutta - è proprio questo: da un lato il non calarsi nel modo di pensare degli altri popoli e, dall’altro, il pretendere, l’espiazione delle colpe, senza offrire una contropartita che coinvolga gli altri verso un progetto comune. Il problema è come offrire all’inferiore la possibilità di accedere allo stato di grazia senza essere demonizzato. Gli americani hanno imposto per sessantanni la loro egemonia all’insegna del benessere individuale; e sono giunti ai loro limiti. Ai tedeschi spetta di farlo, oggi, in nome del bene collettivo; ma devono trovare un’idea che coinvolga tutti, e non solo i primi della Klasse”. (59)

Guardando avanti

Dice un antico motto valtellinese: guardare indietro per vedere avanti.

Ed allora guardiamo indietro partendo dall’antico testamento, dalla severa profezia e monito rivolto a Gerusalemme dal profeta Geremia (6.16):

“Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita”

Ma essi hanno risposto: “Non la prenderemo!”

Ho posto sentinelle per vegliare su di voi:

“Fate attenzione al suono del corno”.

Hanno risposto: “Non ci baderemo!”.

Per questo ascoltate, o genti, e sappi, o assemblea, ciò che avverrà di loro; ascolta, o terra:

“Ecco, io faccio venire contro questo popolo la sventura, frutto dei loro pensieri, perché non hanno prestato attenzione alle mie parole e hanno rigettato la mia legge.

Perché mi offrite incenso di Saba e la preziosa cannella che viene da lontano?

I vostri olocausti non mi sono graditi, non mi piacciono i vostri sacrifici”.

Perciò così dice il Signore:

“Ecco, metterò pietre d’inciampo per questo popolo e inciamperanno insieme padri e figli”.

A me sembra una profezia di straordinaria attualità. Le parole che vi ho letto possono letteralmente essere rivolte a noi, al nostro tempo, alle nostre città.

Nel 1929 poco prima del grande crollo dell’economia americana e internazionale, tutti i maggiorenti degli USA e i loro esperti preconizzavano un lungo periodo di grandissima prosperità. Poche erano le voci di coloro che percepivano la malattia del sistema e che lanciavano avvertimenti di grande pericolo. Però c’erano, ma nessuno li ascoltava. Come con Geremia. Uno di questi scrisse un allarmato articolo il cui titolo, letteralmente, risuona come il grido di Geremia. Era infatti intitolato: Stop, Look, Listen.

Stop: fermatevi;

Look: guardate;

Listen: ascoltate, “fate attenzione al suono del corno”.

Ma essi risposero: non ci baderemo, nel 1929 come ai tempi di Geremia, come nel 2007, come oggi-

Nel 2007 gli americani dormivano sonni tranquilli, se è vero che il presidente Bush in un messaggio radiofonico del 6 agosto 2005 aveva detto loro:

“Mentre le famiglie del Paese si godono l’estate, gli americani possono essere ottimisti sul futuro della nostra economia… Recenti rapporti economici indicano che la nostra economia sta crescendo più in fretta di quelle di qualsiasi altro grande Paese industrializzato… L’economia americana suscita l’invidia del mondo e noi la manterremo tale. Continueremo a lasciare libero lo spirito imprenditoriale dell’America, affinché sempre più i nostri cittadini possano realizzare il Sogno Americano”.

E Ben Bernanke, allora presidente del Consiglio dei consulenti economici del presidente degli USA, poi presidente della FED, parlando al Joint Economie Committee del Congresso Americano, il 20 ottobre 2005, affermò solennemente “oggi l’economia americana è nel pieno di una espansione forte e sostenibile”.

Giudizi analoghi furono sostenuti, addirittura nel 2007 inoltrato, dall’allora presidente della FED di New York e poi Ministro del tesoro, Geithner.

Eppure, un osservatore, umile e isolato, come Marco Vitale, nel luglio 2006, poteva scrivere su un quotidiano: “Via dall’America, prima che sia troppo tardi”. E nel 2003 un importante economista italiano, come Sylos Labini, in un saggio dal titolo “Le prospettive dell’economia mondiale. La crisi economica in America” scriveva, motivando e documentando le conclusioni: “In una relazione sulle prospettive dell’economia mondiale poi pubblicata da II Ponte (maggio 2002) esprimevo gravi preoccupazioni sulle prospettive dell’economia americana che condiziona fortemente le economie degli altri paesi e, in particolare, quelle europee. La mia diagnosi fu giudicata da molti pessimista, ma i fatti, finora, mi hanno dato ragione. Oggi (2003) la mia diagnosi è ancora più pessimista.”

Dopo che la crisi è scoppiata, la parola d’ordine che è passata perché faceva comodo all’establishment è stata: la crisi era imprevedibile. Falsità colossale. Nel mio libro: Passaggio al Futuro. Oltre la crisi attraverso la crisi (60) da pag. 11 a pag. 19, in un paragrafo intitolato: “La prevedibilità della crisi”, elenco tutti quelli che l’hanno prevista. Tutte le sentinelle di cui parla Geremia. Ma non furono ascoltate.

Come ai tempi di Geremia, come nel 1929, come oggi, dove invece di percorrere “la strada buona” stiamo percorrendo esattamente la stessa strada che ci ha portato alla caduta del 2007-2008.

Il messaggio qui è chiaro. Fate attenzione ai profeti. Ascoltateti e rifuggite dal pensiero unico e dalle mode, e per ascoltarli cercateli e imparate a riconoscerli.

La concezione della proprietà, presidio della libertà e dell’iniziativa individuale, ma inserita in una precisa filosofia pubblica della responsabilità e della sua diffusione è, in realtà, un tema la cui essenza va alle radici del pensiero democratico occidentale (come ho già detto sul tema possiamo risalire ad Aristotele).

Questa concezione della proprietà è anche quella che la moderna DSC, con grande coerenza e rigore, ha sempre sostenuto e difeso, a partire dalla Rerum Novarum. Ma oggi è necessario ritornare con urgenza in campo, perché tutto si è terribilmente complicato. Viviamo in un ‘epoca in cui il diritto di proprietà è ritornato ad essere esercitato, con forme assolute e feroci, che rasentano quelle della schiavitù (61).

L’idea che gli azionisti siano gli unici proprietari di una società di capitali e gli unici interessati a coglierne i frutti, è un’idea primitiva e catastrofica che ha prese piede a partire dagli anni ‘80 del ‘900, e che ha fatto fare un grande salto indietro al pensiero aziendale, societario, economico e civile.

Il predomino e lo strapotere delle grandi compagnie che controllano le reti mondiali e la supremazia che esse esercitano, attraverso le reti, non solo sui cittadini ma sui governi è spaventoso. La battaglia sui brevetti come strumenti per bloccare la concorrenza, negli USA, è terrificante. Google e Apple spendono più soldi per acquisire e contendersi dei brevetti che per fare ricerca e sviluppo. Il Patent and Trademark Office americano ha circa diecimila dipendenti. Sui beni immateriali hanno preso corpo nuovi monopoli di fatto che ostacolano le imprese minori, la creazione di nuove imprese e minacciano le più elementari libertà come risulta dal seguente grafico:

2018 04 20 1

Figura 1. L’economia USA è diventata nel tempo meno intraprendente. Tassi di creazione e chiusura di imprese negli USA tra il 1978 e il 2011, Fonte; US Census Bureau, Business Dynamics Statistics (BDS).

che smentisce la leggenda che gli USA siano il paese delle start up. Lo era. Non lo è più.

Google, Apple, Facebook, Twitter, Amazon, Alibaba fanno a gara a creare sistemi brevettati che si impongono come standard e piattaforme di reti mondiali. E quando tali piattaforme vengono adottate da un certo numero di persone, gli altri non hanno altra scelta che usarli a loro volta. Non è per caso che nel 2014 Google è diventato il più grande lobbista degli Stati Uniti (62). Attendiamo con speranza una nuova Rerum Novarum che scavi sul tema proprietà e schiavitù nel terzo millennio.

Concludiamo

Siamo passati dalle radici profonde della responsabilità dell’uomo nella conduzione delle cose del mondo, alla forte e sofferta profezia di Geremia che pare scritta oggi per noi e per le nostre città, alla testimonianza di una profonda coincidenza tra la concezione liberale classica della proprietà e la concezione della proprietà nella DSC. La grande crisi e recessione del 2007 sembra passata invano; sembriamo tutti nuovamente incamminati a ripetere lo stesso cattivo cammino che ci ha portato a quell’appuntamento. Sembra che alle sentinelle poste a vegliare su di noi, al suono del corno, all’appello di ricercare i sentieri del passato e tra questi scegliere la strada buona, noi, tutti in coro, rispondiamo come i contemporanei di Geremia: “Non ci baderemo”.

Ma non è totalmente così.

Sotto la cenere si è acceso un piccolo braciere di speranza. Molte coscienze si sono mosse e stanno cercando “la strada buona”, sia pure con grande fatica ed in mezzo a molti dubbi. Qua e là approdano segnali di incrinatura sul massiccio muro del feroce capitalismo finanziario, che è la peste nera del nostro tempo. Gli otto milioni di voti che ha raccolto Sanders alle primarie statunitensi, su un programma esplicitamente ostile al neoliberismo ed al capitalismo finanziario, sono un segnale significativo. E stanno aumentando, soprattutto negli USA, che sono il centro della peste nera, le voci che, pur provenendo dall’establishment americano, chiamano a un profondo ripensamento critico del pensiero dominante. Tra queste ne scelgo tre recenti e, a mio avviso, molto significative.

La prima è di Philip Kotler, un grande guru del marketing e uno degli autori più noti internazionalmente (63), che in un libro importante lancia un appello per una profonda revisione del pensiero e del sistema dominante. Tra l’altro, collegandosi a un movimento americano che si chiama “Conscious Capitalism”, che raccoglie gli amministratori delegati di aziende importanti richiama quattro principi:

1.  Le aziende devono prefiggersi un obiettivo più alto del semplice profitto;

2.  Le aziende devono mirare a soddisfare non solo gli investitori ma tutti gli stakeholder, in vista di una prosperità condivisa;

3.  Le aziende devono assumersi le proprie responsabilità nei riguardi della comunità;

4.  La cultura aziendale deve attribuire grande valore alla fiducia, all’autenticità, alla premura, alla trasparenza, all’integrità, all’apprendimento e alla responsabilizzazione.

È vero che questi principi persone come Vittorio Coda e Marco Vitale li insegnavano in Bocconi negli anni ‘80 e ‘90. Ma la novità è che vengono oggi fatti propri da un famoso guru americano. E questo è un fattore di novità e insieme di speranza.

La seconda è di Robert B. Reich, segretario del lavoro durante la presidenza Clinton, definito dal “Time” uno dei dieci più importanti ministri americani del ventesimo secolo ed economista tra i più autorevoli contemporanei. Nella conclusione del suo importante libro, dal titolo: “Come salvare il capitalismo”, Reich lancia un messaggio di ottimismo legato alla necessità di cambiare l’attuale assetto del capitalismo americano ma nella continuità, nella fedeltà dei valori fondanti dell’America, trovando proprio in questa fedeltà la forza per cambiare:

“La principale causa di ottimismo è che non dobbiamo sentirci vittime di “forze di mercato” impersonali e sulle quali non abbiamo alcun controllo. Il mercato è una creazione umana: si basa su regole concepite da esseri umani. La domanda chiave è chi plasma queste regole e perché. Negli ultimi trentanni le regole sono state dettate dalle grandi corporation, da Wall Street e dai super ricchi per incanalare verso di sé un’ampia fetta del reddito e della ricchezza totale del paese. Se costoro continueranno ad avere un’influenza spropositata su tali regole, finendo per acquisire il controllo delle attività al cuore della nuova ondata di innovazioni, si impadroniranno di quasi tutta la ricchezza, quasi tutto il reddito e quasi tutto il potere politico. Il risultato non è nel loro interesse, almeno quanto non è nell’interesse del resto della popolazione, perché in queste condizioni un’economia e una società non possono durare.

La nuova sfida non investe la tecnologia o l’economia: è una sfida per la democrazia. Il dibattito cruciale del futuro non riguarda le dimensioni del governo, bensì per chi e che cosa opera il governo. La scelta chiave non è tra il “libero mercato” e il governo, ma tra un mercato organizzato a favore di una prosperità ampiamente diffusa e uno che punta a consegnare quasi tutti i guadagni a pochi individui in alto. Il punto non è quanto togliere ai ricchi tramite le tasse per ridistribuirlo a chi ricco non è, ma come concepire le regole del mercato affinché l’economia generi ciò che la maggior parte delle persone consideri di per sé un’equa distribuzione, senza la necessita di ampie ridistribuzioni a posteriori.

La grande maggioranza dei cittadini americani ha la capacità di modificare le regole del mercato perché queste soddisfino i loro bisogni. Ma per esercitare questo potere deve capire che cosa sta succedendo e dove risiedono i suoi interessi, e i cittadini devono unirsi. In passato lo abbiamo fatto. Se la storia è d’insegnamento e il buon senso ha un qualche peso, lo faremo di nuovo”.

La terza è quella di Angus Deaton, premio Nobel per l’economia 2015. In un suo libro importante di pochi anni fa, intitolato: “La grande fuga” (dalla povertà), Deaton aveva illustrato, in modo molto convincente che la grande fuga dalla povertà ha portato la maggioranza dell’umanità a condizioni di vita molto migliori rispetto a qualsiasi altro periodo storico. E aveva analizzato i meriti della globalizzazione e dell’economia di mercato per il raggiungimento di questo obiettivo, Ma oggi egli mette a fuoco le disfunzioni del capitalismo finanziario americano ed è impegnato per un’economia più umana e più giusta. In una relazione per un convegno tenuto il 21 settembre (2016) a Roma, organizzato dall’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, e intitolato, appunto, per un’economia più umana e più giusta, ha detto parole fondamentali:

“quella “fuga” causò certamente un’enorme disuguaglianza globale, ma salvò anche le vite di milioni di persone, senza mai danneggiare quelle di altri. La disuguaglianza che la “fuga” portò con sé non è iniqua o ingiusta, a meno che noi crediamo che la giustizia richieda che nessuno possa “fuggire” se non lo fanno anche tutti gli altri nello stesso momento. Nel ricco mondo contemporaneo ci troviamo di fronte a due tipi di disuguaglianza economica. Uno nasce dal successo di innovatori e imprenditori lungimiranti, le cui invenzioni e scoperte hanno reso il mondo migliore di quello che era in passato. Questi davvero rappresentano la fonte della crescita economica e di quella creatività nel pensare e nel produrre che contribuisce a farci stare sempre meglio. Che questi uomini costruttori di progresso divengano più ricchi, non è certo un crimine visto tutto ciò che fanno. Lo stesso però non può essere detto per il secondo tipo di disuguaglianza, quella guidata dalla ricerca di una rendita improduttiva da parte di quanti sono già ricchi e potenti. Questi ultimi infatti si arricchiscono senza creare nulla, ma anzi sottraendo sempre più a tutti gli altri. Pensiamo così a quelle aziende che coi loro lobbisti scrivono leggi a loro favore, leggi in grado di renderle più ricche a spesa di tutti gli altri. Queste aziende spesso si adoperano contro le legislazioni anti-trust che, invece, forniscono quelle regole basilari per cui il mercato funzioni per tutti e non solo per i più ricchi o per quelli con i giusti contatti nei posti giusti. Questi soggetti economici stanno ribaltando la distribuzione dei redditi, allontanandola dai salari e spingendola verso i propri profitti. La disuguaglianza che origina da questo tipo di capitalismo clientelare è un vero cancro che ci minaccia tutti. Questo cattivo tipo di disuguaglianza mina anche la (dis)uguaglianza politica, lasciando indietro coloro le cui voci si perdono annegate nel flusso incessante del denaro. Negli Stati Uniti è infatti quasi impossibile essere eletti membri del Congresso o restare in carica senza un grande supporto finanziario. È così che gli interessi che vengono portati avanti sono quelli di chi contribuisce coi propri fondi alla vita politica ed elettorale. In Europa il finanziamento alla politica non costituisce un problema così serio. Ciononostante, troppi sono gli elettori che sentono che i propri interessi non sono rappresentati né nei governi nazionali né in quelli sovrannazionali e si stanno così rivolgendo a partiti estremisti la cui elezione però renderebbe le cose ancora più difficili. Dunque, è la corruzione della disuguaglianza a dovere essere rimossa, non tanto con tasse o meccanismi di ridistribuzione, quanto piuttosto con un migliore funzionamento delle democrazie che possa realmente scacciare il capitalismo clientelare e riportare in carica governi che rappresentano realmente l’intera collettività”.

Il Presidente Renzi nella sua infantile ingenuità in materia economica (64) continuava a dire che il modello americano è quello cui dobbiamo guardare. Ma i più importanti e liberi pensatori americani ci dicono che non è vero e che questo modello, nel suo profilo attuale, deve essere profondamente corretto. È, tra l’altro, scandaloso che le prime 20 banche al mondo (in gran parte USA) abbiano dovuto pagare, negli ultimi sette anni, multe per truffe e malefatte ai danni dei clienti per un totale di 235 miliardi di dollari e che l’ultima della serie la, una volta, molto rispettata Wells Fargo abbia dovuto licenziare 5300 dipendenti considerandoli coinvolti di una truffa sistemica e di massa ai danni dei clienti. Il CEO, tale Stumpf, ha chiesto scusa, ma l’autorevolissima Senatrice Warren ha risposto: Altro che scuse, “dovrebbe dimettersi o essere licenziato, dovrebbe restituire i 200 milioni di dollari da lui guadagnati in Borsa grazie al rialzo delle azioni della Wells Fargo dovuto a quelle tecniche truffaldine e dovrebbe essere sottoposto a un’indagine personale, perché si è trattato di un comportamento criminale. Finché non verranno messi in galera i veri responsabili di questi scandali, Wall Street e molte banche continueranno a funzionare male con gravi danni per i risparmiatori”.

Lungi quindi dal guardare acriticamente e ingenuamente al “modello americano”, noi, insieme ai migliori pensatori ed operatori americani, dobbiamo lavorare per un capitalismo più giusto e più umano che rimetta al centro la persona umana e quindi il lavoro e la dignità del lavoro e riporti la finanza entro i limiti che gli dovrebbero essere propri.

E l’Italia? È provinciale come sempre e, come sempre, imita tardivamente l’America, negli aspetti peggiori, proprio quando molti americani si sforzano di incamminarsi verso nuove strade che, poi, sono, come dice Geremia, i buoni sentieri del passato tra i quali bisogna rintracciare la buona strada nuova. Ma ci è di conforto osservare che centinaia di imprese medie si comportano con grande visione, serietà e speranza e vivo senso del Bene Comune, secondo la concezione d’impresa tracciata da grandi imprenditori creatori di sviluppo come Adriano Olivetti, che emerge sempre più forte con il passare del tempo, e come Michele Ferrerò.

La responsabilità dei cristiani

La situazione è molto difficile e, talora, sembra senza speranza. Ma “Ètre chrétien, c’est rejuser la fatalité (65). Nel vuoto di pensiero esistente, nel dominio ideologico ed operativo del capitalismo finanziario e degli inganni del neoliberismo, nella debolezza del pensiero che dovrebbe contestarlo, nell’urgenza di una grande correzione di marcia per tentare di evitare lo scontro contro un nuovo iceberg, nella necessità di accendere una nuova speranza ed indicare nuove vie per le nuove generazioni, grande è la responsabilità dei cristiani. Le opposizioni di sinistra e di stampo marxista al neoliberismo e al capitalismo finanziario si sono sciolte come neve al sole o, meglio, hanno scelto di diventare loro stesse parte integrante del neoliberismo. Un liberale autentico, come il Luigi Einaudi delle Lezioni di Politica Sociale, si colloca alla sinistra di qualunque personaggio della nostra attuale sinistra politica.

La responsabilità dei cristiani e dei cattolici è dunque grande perché il pensiero cristiano e, in particolare, quello cattolico della Dottrina Sociale della Chiesa (DSC), è l’unico che si pone in conflitto esistenziale con la ideologia del neo-liberismo e con le sue pratiche di capitalismo finanziario selvaggio ed è l’unico che può esercitare un’influenza morale su larga scala.

Nel capitolo secondo della sua Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”, papa Francesco ha pronunciato quattro formidabili NO:

“NO a un’economia dell’esclusione

NO alla nuova idolatria del denaro

NO a un denaro che governa invece di servire

NO all’iniquità che genera violenza”

Dietro a questi NO sfilano non solo i cattolici, ma tutti coloro che credono al valore della democrazia, ad un’economia responsabile di mercato, ad un’economia libera e imprenditoriale nel senso del paragrafo 42 della Centesimus Annus, ad un’economia guidata dal lavoro, dalla dignità del lavoro, dalla dignità dell’uomo che lavora, dai principi della nostra Costituzione e non del denaro. Il pensiero economico-sociale cattolico si è sempre battuto per porre al centro non il “capitai gain” ma la dignità dell’uomo, per difendere la proprietà privata, intesa come strumento di libertà di ogni singolo uomo e non di accaparramento, per combattere la concentrazione delle ricchezze, per favorire una efficiente competitività solidale, per sostenere il principio di sussidiarietà contro la concentrazione di ogni tipo di potere. Per questo dietro quei NO si schierano non solo i cattolici osservanti ma i grandi liberali ortodossi, da Einaudi a Sturzo e si schierano i grandi pensatori dell’Economia Sociale di Mercato come il luterano Roepke. Dietro a questi NO io vedo sfilare Adenauer, Erhard, Einstein, Manzoni, Goethe, Bonhoeffer, Kennedy, Churchill, Tolstoi, Roosevelt, Croce, Menichella, Adriano Olivetti, Paolo Baffi, Volker, Giorgio Ambrosoli, i giovani universitari tedeschi della Rosa Bianca, e tanti tanti altri, tutti quelli che hanno fatto del nostro pianeta un luogo dove vivere con dignità, libertà e amore per il Creato è possibile. E si schierano le migliaia e milioni di imprenditori seri che lavorano per creare e non per rapinare. Non è piccolo e non è debole, dunque, l’insieme del pensiero e delle esperienze di tutti coloro che si schierano dietro questi NO. E se questo è vero e se di questa verità ci convinciamo, allora ci sentiamo meno soli, meno disperati, meno orfani di prima.

Ma per esprimere la loro forza, per assolvere la loro responsabilità, per rispondere alla loro chiamata, i cristiani debbono superare due ostacoli concettuali.

Il primo è di esercitare veramente il culto della verità al quale ci richiama l’esortazione apostolica di papa Francesco, la “parresia” dei greci.

Il secondo è di avere coraggio intellettuale, di non avere paura di entrare nel vivo delle cose, di non farsi intimidire dai tecnicismi. Per paura di sentire rimbombare l’antico “Silete theologi in munere alieno”, per paura di essere accusata di volersi intrufolare in cose non di sua competenza, per tante collusioni e scheletri negli armadi, parte importante della Chiesa attuale non ha la forza di rispondere come Innocenzo III che: “ratione peccati” la Chiesa ha il diritto ed il dovere di prendere posizione su ogni tema. Ecco, allora, che in molti testi cattolici appare una clausola di stile che dice:

“La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende minimamente di intromettersi nella politica degli Stati. Ha però una missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione(66).

Ma come è possibile impegnarsi per una società a misura d’uomo, per la sua dignità, per la sua vocazione, senza entrare nelle soluzioni, senza prendere posizione, anche tecnica, sui problemi concreti, come, ad esempio, quelli trattati in questa relazione, che sono temi di vita e di morte per milioni di persone, senza condannare certe cose ed appoggiarne altre? Ed in ogni caso, se per la Chiesa in senso stretto, come organizzazione politica, può essere giustificata una certa cautela, per la comunità dei cristiani, cioè per la Chiesa come popolo di Dio, per noi imprenditori e manager cristiani, questa timidezza diventa complicità. Come possiamo stare zitti di fronte ad un pensiero socio-economico che si spinge sempre più indietro, verso un capitalismo barbaro, violento, incivile e corrotto, che è in contraddizione profonda non solo con la DSC ma con tutti i grandi pensatori ed operatori cattolici e cristiani, da Manzoni a Rosmini, da Luigi Einaudi a Don Sturzo, da Adenauer a De Gasperi, da Bonhoeffer a Padre Giulio Bevilacqua?

Per fortuna anche qui ci vien in aiuto l’esortazione apostolica di papa Francesco:

L’insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali.

182.  Gli insegnamenti della Chiesa sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi sviluppi e possono essere oggetto di discussione, però non possiamo evitare di essere concreti - senza pretendere di entrare in dettagli - perché i grandi principi sociali non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno. Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche perché “possano con efficacia incidere anche nelle complesse situazioni odierne (67).1 Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose “perché possiamo goderne” (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune(68).

183.  Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e della beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica - che non è mai comoda e individualista - implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli, sebbene “il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica”, la Chiesa “non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia”. Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Di questo si tratta, perché il pensiero sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasformatrice, e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza che sgorga dal cuore pieno d’amore di Gesù Cristo”.

Papa Francesco si rivolge alla Chiesa come organizzazione. Ma sta a noi laici, operatori, studiosi, imprenditori, manager di impegnarci, alla luce dei grandi principi e valori della DSC, per tradurre i quattro NO in un programma economico, sociale, politico anche entrando nei dettagli, facendo proposte, alimentando progetti, e facendo una grande chiamata alle armi. La casa brucia e se lasciamo incontrastato il capitalismo finanziario ed i Chicago Boys tradiremo noi stessi, il nostro mandato, la nostra chiamata, i nostri figli e nipoti.

Dunque, senza timidezze e servilismi, ai quali una certa Chiesa ci ha abituato, diciamo alto e forte: questo capitalismo finanziario questo neoliberismo, questa Scuola di Chicago, sono un pericolo per l’umanità e per il Pianeta che ci ospita, e noi dobbiamo sentirci impegnati per cambiare rotta.

Insomma. Non ha molto senso domandarsi in che direzione si muoverà la città. Essa si muoverà nella direzione dove la guiderà la sua classe dirigente o, in assenza di guida, il ritmo incalzante della tecnologia. Come sempre il futuro è nelle nostre mani. Ed allora è più importante domandarsi: dove sono i leader? Dove sono le guide che ci portano sugli aspri sentieri che dobbiamo percorrere? E dove sono i cristiani? La nuova economia dovrà, necessariamente, essere molto più cristiana di quella che a partire dal 2007 è crollata rovinosamente (cioè molto più rispettosa della dignità umana, molto più rispettosa del lavoro in tutte le sue forme, molto più favorevole alla diminuzione e non all’aumento delle differenze sociali ed economiche, con la ricchezza ed il potere molto meno concentrati, con un modello di vita e di consumi molto più equilibrati, sobri e civili, nella quale i beni culturali e immateriali occupano uno spazio maggiore, dove i principi di solidarietà e sussidiarietà siano tra i cardini dell’organizzazione sociale e dove cresca il rispetto e l’amore per il Pianeta che ci ospita).

E qui ci ricolleghiamo al tema del cosa vuol dire essere cristiani o aspiranti cristiani oggi. I cattolici organizzati si sono dati molto da fare con i vari Todi1 e Todi2. Ma si è trattato di movimenti sostanzialmente a sfondo politico-elettorale, per tentare di rientrare, come cattolici, nel gioco del potere politico, oltretutto completamente falliti. È l’unica cosa che sanno suggerire certi vertici della Curia così privi di religiosità, così lontani dal cristianesimo, così immersi nelle logiche del potere politico, da spaventare persino un pontefice solido come il tedesco Ratzinger (69).

Ed invece il grande processo di trasformazione nel mezzo del quale ci troviamo, ci interroga personalmente. Cosa vuol dire essere cristiano o aspirante cristiano oggi, nella tua professione, nella tua città? Cosa fai tu ogni giorno per il Bene Comune? Cosa fai tu per rompere la ragnatela di falsità che ci avviluppa, per ripristinare l’antico insegnamento: sia il vostro dire sì quando è sì e no quando è no, il di più viene dal maligno. Queste sono le domande alle quali dobbiamo dare una risposta individuale e personale. Se risponderemo bene ed agiremo coerentemente anche le vicende della nostra città e delle nostre imprese miglioreranno. Anche Agostino visse e fu vescovo in tempi molto turbolenti e di grande trasformazione. Ed allora meditiamo sulle sue parole:

“Mala tempora, laboriosa tempora, hoc dicunt homines.

Bene vivamus, et bona sunt tempora.

Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora ».

(SanV Agostino, Sermo 80, De Verbis EvangeliiMT 17,18-20)


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1       L’etica degli antichi, degli eroi omerici, etica dell’individualismo e della forza è profondamente diversa: Mario Vegetti, “L’etica degli antichi”, Editori Laterza, 1989. - (ritorna)

2       Michael Foucault, Il coraggio della verità, Corso al Collège de France (1984), Feltrinelli 2011. Questo bellissimo testo riproduce l’ultimo corso di Michael Foucault, che scava profondamente nel concetto di “parrésia”. - (ritorna)

3       La stagione della democrazia ateniese tocca il suo vertice con Pericle, e rimane un periodo straordinario della storia umana nonostante i limiti e le inefficienze che gli studiosi hanno evidenziato, a partire da Aristotele (La Costituzione degli atenesi, RCS Libri, 1999), che illustra le trasformazioni e convulsioni costituzionali che accompagnano l’evoluzione costituzionale ateniese. Come dice Aristotele in apertura del Quinto libro della Politica “Bisogna indagare quali sono le cause per cui le costituzioni mutano, quante e quali sono, in che modo ogni tipo di costituzione va in rovina”. E il culmine toccato con la democrazia di Pericle, che fu da Platone chiamata “un’aristocrazia con il consenso della massa”, mostra subito dopo Pericle (persona che “guidava il popolo piuttosto che essere guidato” Tucidide) la sua fragilità. Ma essa conserva, nei suoi principi fondanti, un valore paradigmatico. È istruttivo anche per i nostri tormentati anni, riflettere sul pensiero di Tucidide in relazione ai successori di Pericle: “I suoi successori, invece, sottolinea lo stesso Tucidide, erano troppo uguali l’uno all’altro e volevano tutti primeggiare: per questo si preoccupavano di piacere al popolo e affidarono a esso anche il governo dello stato”. L’uguaglianza - altrimenti enunciata come base del vivere democratico - si trasforma di fatto. In una peste che rovina la città, facendo dilagare la competizione violenta e demagogica per il potere. Tutti sono simili e tutti desiderano comandare. I pesi si scostano rispetto a quanto era avvenuto in precedenza. Ora la “massa” e i suoi desideri sono l’unico elemento decisivo e l’unico fronte che consente l’accesso alle maggiori cariche. Si può governare solo se si “consegnano gli affari” nelle mani del popolo. Da ciò, conclude retrospettivamente Tucidide, derivarono “molti errori”: gli errori che portarono l’impero di Atene al suo collasso. Il “valore” di uno solo è fragile garanzia. L’uguaglianza di tutti, senza il possesso distintivo del “valore”, è disastrosa. Il nodo democratico si stringe in questa contraddizione”. Introduzione di Davide Susanetti al libro: Tucidide, I discorsi della democrazia, Feltrinelli, 2015. - (ritorna)

4       Nel libro: “The New Realities: in Government and Politics, in Economy and Business, in Society and in World View” Heinemann Professional Publishing Ltd. 1989. Traduzione italiana Etas Libri, 1989, “Economia Politica e Management, Nuove tendenze nello sviluppo economico, imprenditoriale e sociale”. È un libro che dovrebbe essere lettura obbligatoria in tutte le scuole superiori, in tutte le scuole di management e in tutte le scuole politiche, se ci fossero. - (ritorna)

5       Cfr. Catechismo della Chiesa CATTOLICA, Compendio 407: “Perbene comune si intende l’insieme di quelle condizioni di vita sociale che permettono ai gruppi e ai singoli di realizzare la propria intenzione”. - (ritorna)

6       Senofonte, L’amministrazione della casa (economico) a cura di Carlo Natali, con testo greco a fronte; letteratura universale Marsilio, 1988. - (ritorna)

 7       La lettura più corretta del libro, come scritto di economia aziendale, che conosco è quella di Leonardo Paganelli, “Un dialogo sul management, Senofonte. Economico”, Cisalpino editore, 1992. - (ritorna)

 8       Un libro paragonabile nella cultura orientale è l’Arte della Guerra di Sun Tzu, scritto 2500 anni fa da un filosofo e generale. Su entrambi i libri rinvio al mio scritto: “Lezioni di impresa da tempi e luoghi diversi. Il management è una disciplina antica”. Piccola Biblioteca Inaz, 2008. Sullo stesso tema rinvio anche al libro: L’impresa responsabile, Nelle antiche radici il suo futuro, ESD, 2014. - (ritorna)

 9       The Practice of Management, 1954; traduzione italiana “Il potere dei dirigenti” Edizioni di Comunità 1958. - (ritorna)

10     Benedetto Cotrugli, nel 1458 scrisse il primo manuale italiano completo sull’Impresa, in: Il libro della mercatura, 1458, Arsenale Editrice, Venezia 1990. - (ritorna)

11     Pubblicato in Italia dalla Morcelliana nel 1960 con il titolo: Riflessioni sull’America. - (ritorna)

12     Si riferisce al famoso massacro di Ludlow del 20 aprile 1914. - (ritorna)

13     Questa “conciliazione” è l’essenza dell’impresa che supera il conflitto aspro capitale lavoro dando vita ad un nuovo soggetto storico che non si identifica né con l’una né con l’altra componente dell’impresa ma ha un suo proprio scopo e funzione. - (ritorna)

14     “In verità, chiamare “capitalismo” il sistema americano è cosa del tutto ridicola, se consideriamo quel che il termine altrove significa... La libera società industriale che appare da questa analisi è senz’altro molto differente da quel che noi abbiamo tradizionalmente considerato come “Capitalismo”. Ed è pure molto differente da quel che abbiamo tradizionalmente considerato come “Socialismo”. Una società industriale va al di là del Capitalismo e del Socialismo. È una società nuova, che trascende l’uno e l’altro”. Peter F. Drucker (Concept of thè Corporation, New York, Day 1946. - (ritorna)

15     Che Maritain suggerisce di chiamare “umanesimo economico”. - (ritorna)

16     Marco Vitale, Passaggio al futuro. Oltre la crisi attraverso la crisi, Edizioni Egea, 2010 pag. 32-33. - (ritorna)

17     Quaderni di cultura politica, N. 2 aprile-giugno 2009. - (ritorna)

18     Devo questo collegamento della Scuola di Friburgo con l’opera di Rathenau a Dario Velo. Si veda anche Luisa Bonini, Economia Sociale di Mercato, prefazione Dario Velo, postfazione Marco Vitale, Ed. ESD, 2012. - (ritorna)

19     Louis D. Brandeis, I soldi degli altri e come i banchieri li usano. Edizioni di Storia e letteratura, 2014. - (ritorna)

20     Colin Crouch, titolo dell’edizione originale: The Strange non death of neo-liberalism, Polity Press, Cambridge, UK, 2011; Edizione italiana: Il potere dei giganti. Perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Editori Laterza, 2014, pagg. 214. - (ritorna)

21     Colin Crouch è professore emerito di Governance and Public Management presso la Business School dell’Università di Warwich nel Regno Unito. Dal 1995 al 2004 ha insegnato Sociologia presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Ha pubblicato libri e articoli di sociologia economica, sociologia europea comparata, relazioni industriali, politica contemporanea britannica ed europea. Per i tipi Laterza è autore di Postdemocrazia (2012). - (ritorna)

22     Marco Vitale, L’Impresa responsabile, nelle antiche radici il suo futuro, ESD, 2014. Luciano Gallino, L’Impresa irresponsabile, Einaudi, 2005. - (ritorna)

23      L’Economia Sociale di Mercato era entrata nello schema di costituzione europea, poi non ratificata. - (ritorna)

24     Wilhelm Ropke, Il Vangelo non è socialista, Scritti su etica cristiana e libertà economica (1959-1965), a cura di Carlo Lettieri, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2006). - (ritorna)

25     Per Luigi Einaudi il riferimento d’obbligo è alle smaglianti Lezioni di Politica Sociale, pubblicate nel 1949 sui testi delle lezioni universitarie tenute in Svizzera nel 1944; il testo da me usato è quello di Giulio Einaudi editore del 1964, con nota introduttiva di Federico Caffè. Per Luigi Sturzo tutti i suoi scritti ed anche la sua lunga opera come sindaco di Caltagirone, sono totalmente in linea con l’Economia Sociale di Mercato. Ropke ha ripetutamente ammesso di vedere in Sturzo un suo ispiratore. - (ritorna)

26     Bruni, Zamagni, Economia Civile, Il Mulino, Bologna, 2004. - (ritorna)

27     In Marco Vitale, Guido Corbetta, Umberto Ambrosoli, Adriana Calabrese, Responsabilità nell’Impresa, Piccola Biblioteca Inaz, Novembre 2010. - (ritorna)

28     Flavio Felice, L’Economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, pag. 8. - (ritorna)

29     Ibidem, pag. 25. - (ritorna)

30     Lezioni di politica sociale, op. cit. pag. 41. - (ritorna)

31     P. Johnson, Storia del Mondo Moderno, Oscar Mondadori, Milano 1963. - (ritorna)

32     Altra questione è domandarsi se, ancora oggi, i tedeschi sono fedeli a questa visione o se, come sostiene Alberto Krali, dopo l’unificazione e dopo Kohl, l’hanno abbandonata, per ritornare ai loro vizi illiberali e nazionalisti di sempre. Si veda Alberto Krali, Primi della Klasse. La crisi europea e il ruolo della Germania, Cairo Editore, 2012). - (ritorna)

33     In II Foglio 26 agosto 2008, citato in Flavio Felice, L’Economia sociale di mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008. - (ritorna)

34     Vittorio Possenti, Oltre l’Illuminismo. Il Messaggio Sociale Cristiano, ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1992. Oltre alle fonti dirette, il mio riferimento principale in materia è questo libro che, pur vecchio di venti anni, resta, a mio giudizio, il più profondo libro in materia. - (ritorna)

35     Sui rapporti tra DSC ed economia imprenditoriale mi permetto di rinviare ai miei scritti raccolti nel Dossier 24 Ore, supplemento del Sole 24 Ore n. 158 del 3 luglio 1991, intitolato: Le Encicliche Sociali, il rapporto tra Chiesa ed economia dalla Rerum Novarum di Leone XIII al pontificato di Giovanni Paolo II; perché si tratta dell’unico scritto a me noto che analizza i rapporti con DSC partendo dal punto di vista dell’Impresa. - (ritorna)

36     II testo in tedesco è il seguente: “Die Wiirde des Menschen ist unantastbar. Sie zu achten und zu schutzen ist Verpflichtung aller staatlichen Gewalt”. - (ritorna)

37     Per un confronto con l’Art. 1 della Costituzione italiana, si veda Alberto Quadrio Curzio: “Già nell’Alt. 1 della Costituzione, affermando che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” si lasciavano aperte possibili estensioni anche verso concezioni di supremazia della “persona umana” (di cui si parla in successivi articoli) che esprime valori ben superiori e più ampi da comprendere, tra gli altri, anche quello del lavoro”. A. Quadrio Curzio, Il peccato originale della Costituzione in La Costituzione criticata, ESI, Napoli 1999. - (ritorna)

38     “L’idea di persona: questa è un’idea cristiana, nel complesso estranea alla tradizione islamica e a quella asiatica e africana. L’ideale politico che risulta più congruo al cristianesimo è una democrazia delle persone, non degli individui” (Vittorio Possenti, op. cit. pag. 166). - (ritorna)

39     Citato da Karol Wojtyla, nell’intervista di Vittorio Possenti, sulla dottrina sociale della Chiesa (1978), pubblicata in appendice al citato libro di Vittorio Possenti, pag. 258. - (ritorna)

40     Pensiamo a Kant “riconosci che gli individui umani sono fini e non usarli come puro mezzo per i tuoi fini”. Pensiamo alla Dichiarazione d’indipendenza delle colonie americane del 1726: “We told these thrusts to be self-evident, that all men are createci equal, that they are endowed by thè Creator with unalienable rights”. Pensiamo all’Llmanesimo integrale di Maritain. Pensiamo a San Tommaso, secondo cui la persona è dal Creatore “propter se quaesita in universo” (tutti citati in Vittorio Possenti nel libro citato). - (ritorna)

41     Artikel 14 (Eigentum, Erbrecht und Enteignung)

1)          Das Eigentum und das Erbrecht werden gewàhrleistet. Inhalt und Schranken werden durch die Gesetze bestimmt.

2)          Eigentum verpflichtet. Sein Gebrauch soli zugleich dem Wohle der Allgemeinheit dienen. - (ritorna)

42     Woodrow Wilson, The New Freedom, 1913: “A modern joint stock organization cannot in a proper sense be said to base its rights and powers upon thè principles of private property. Its powers are wholly derived from legislation. The large corporation is in a very proper sense everybody’s business”. - (ritorna)

43     Dionigi Tettamanzi, Etica e Capitale. Un’altra economia è davvero possibile? Rizzoli 2009. - (ritorna)

44     Fides et ratio, Enciclica di Paolo Giovanni II: “Non ha dunque motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede: l’una è nell’altra e ciascuna ha un suo spazio di realizzazione. È sempre il libro dei Proverbi che orienta in questa direzione quando esclama: “È gloria di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle (Pro, 25,2)”. - (ritorna)

45    Art. 20,(1) Die Bundesrepublik Deutschland ist ein demokratischer und sozialer Bundesstaat”. - (ritorna)

46     Peter Zolling, Das Grundgesetz. Unsere Verfassung, wie sie entstand und was sie ist, Cari Hanser Verlag, Miinchen, 2009. La traduzione è mia. - (ritorna)

47     Si veda l’analogia con Luigi Einaudi: “Le banche non sono fatte per pagare stipendi ai loro impiegati o per chiudere il loro bilancio con un saldo utile, ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto col servire nel miglior modo il pubblico”. (Relazione del Governatore della Banca d’Italia per l’esercizio 1943 letta nell’aprile 1945). - (ritorna)

48     “Die soziale Marktwirtschaft ist eine Zivilisationprodukte. Das haben viete vergessen”. - (ritorna)

49     Si veda la straordinaria analogia con la sopra citata descrizione della fiera mercato di Luigi Einaudi. Peter Zolling intitola questo paragrafo con l’efficace espressione: “Kein Market ohne Rathaus” (nessun mercato senza un Comune). - (ritorna)

50    Zur Verwirklichung eines vereinten Europas wirkt die Bundesrepublik Deutschland bei der Entwicklung der Europàischen Union mit, die demokratischen, rechtsstaatlichen, sozialen und fòderativen Grundsatzen und dem Grundsatz der Subsidiaritàt verpflichtet ist und einen diesem Grundgesetz im wesentlichen vergleichbaren Grundrechtsschutz gewahrleistet. Der Bund kann hierzu durch Gesetz mit Zustimmung des Bundesrates Hoheitsrechte iibertragen”. - (ritorna)

51     Preambolo: “Nella coscienza della sua responsabilità di fronte a Dio ed agli uomini, con la volontà, come partner paritetico in una Europa unita, di servire la causa della pace nel mondo, il popolo tedesco, per forza dei suoi poteri costituenti, si è dato la presente Costituzione”. Pràambel: im BewulUsein seiner Verantwortung vor Gott und den Menschen, von dem Willen beseelt, als gleichberechtigtes Glied in einem vereinten Europa dem Frieden der Welt zu dienen, hat sich das Deutsche Volk kraft seiner verfassungsgeben den Gewalt dieses Grundgesetz gegeben. - (ritorna)

52     “Ne ho già parlato tre anni fa, sostenendo che”l’economia di mercato non è sufficiente”. Dicendo “l’economia di mercato non è sufficiente”, è stato già espresso il concetto della lotta su due fronti; vale a dire l’economia di mercato è una condizione necessaria, ma non sufficiente per un ordinamento economico produttivo, redditizio e degno dell’uomo... È della massima importanza quanto segue: come base morale dell’economia di mercato è indispensabile quel patrimonio etico che abbiamo raggiunto per effetto dello sviluppo millenario dall’Antichità attraverso il cristianesimo fino al giorno d’oggi. Questo significa, per dirlo concisamente, che la base etica dell’economia di mercato è costituita dai dieci comandamenti. Essi sono indispensabili ed allo stesso tempo sufficienti. Sarebbe solo auspicabile che fossero rispettati. È significativo che per il collettivismo i dieci comandamenti non bastino più, ma che le più svariate azioni - che secondo il decalogo sono eticamente neutrali o forse anche negative - sono giudicate positivamente, mentre d’altro canto vengono bollate come criminose, e perseguitate come tali, azioni che secondo la nostra morale non lo sono affatto”. Il Vangelo non è socialista, op. cit. pag. 65,66. - (ritorna)

53     Wilhelm Ròpke, L’enciclica Mater et Magistra, in II Vangelo non è socialista, op.cit. pag. 87. - (ritorna)

54     Si colga qui la convergenza con alcune riflessioni citate di Maritain. - (ritorna)

55     Financial Times, 25 giugno 2012. - (ritorna)

56     Financial Times, 16 giugno 2012. - (ritorna)

57     Financial Times, 15 giugno 2012. - (ritorna)

58    Alberto Krali, germanista, insegna Lingua tedesca alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano ed è coordinatore della laurea magistrale italo-tedesca in collaborazione con l’Università Martin Luther di Halle- Wittenberg. È impegnato nella promozione degli scambi con le istituzioni straniere e in particolare tedesche. Ha svolto attività di insegnamento a Heidelberg. Ha pubblicato vari libri sull’argomento e svolge attività di pubblicista. - (ritorna)

59    Alberto Krali, Primi della Klasse, la crisi europea ed il ruolo della Germania, Cairo Editore, 2012. - (ritorna)

60     Edizione Egea, 2010. - (ritorna)

61     Bandita legalmente in America nel 1865, ma in Mauritania solo nel 1981 la schiavitù continua, in forme illegali, in tante parti del mondo, comprese certe regioni e ambienti italiani. - (ritorna)

62     Chi vuole approfondire lo strapotere del diritto di proprietà e dei monopoli di fatto negli USA di oggi, troverà molto interessante la lettura di Robert B. Reich, Come salvare il capitalismo, Fazi Editore, 2015. - (ritorna)

63     Philip Kotler, Ripensare il Capitalismo, Hoepli, 2016. Titolo originale: Confronting capitalism. Reai Solutions for a Troubled Economie System, Amacom, 2015. - (ritorna)

64     Non voglio che questo mio giudizio venga esteso oltre l’area economica al quale l’ho riferito. - (ritorna)

65     Gaél Giraud, op. cit. pag. 173. - (ritorna)

66    Questo testo l'ho preso dal periodico dell'UCID 2/3 - 2013, ma è un testo standard. - (ritorna)

67     PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 9. - (ritorna)

68     GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. postsinodale Ecclesia in America (22 gennaio 1999), 27: AAS 91 (1999), 762. - (ritorna)

69     “La Chiesa è tutt’altro della Curia romana” cardinale Rubén Salazar Gómez, primate di Colombia e vicepresidente del Consiglio episcopale latino-americano (Corriere della Sera, 3 marzo 2013). - (ritorna)