AZIENDE FAMILIARI ITALIANE: TRA INDIVIDUALITÀ E SOLIDARIETÀ DI FILIERA E DI SISTEMA - intervento di Marco Vitale
ITALIA DEL GUSTO
CONSORZIO TRA AZIENDE ITALIANE ALIMENTARI
PER DIFFONDERE IL GUSTO E LO STILE
ITALIANO DELL’ALIMENTAZIONE IN TUTTO IL MONDO
CONVEGNO IDG 2018 SYNOPSIS 14 - 15 GIUGNO 2018
e/o Noberasco
Carcare (Savona)
INTERVENTO
DI MARCO VITALE
AZIENDE FAMILIARI ITALIANE:
TRA INDIVIDUALITÀ E SOLIDARIETÀ DI FILIERA E DI SISTEMA
“Gli italiani non lo sanno ma la loro forza è la capacità di ricominciare sempre da capo”
(Vasco Pratolini Cronache di poveri amanti)
Economia italiana. Le cattive notizie
Svilupperò alcune riflessioni sull’industria agroalimentare nel contesto dell’attuale momento dell’economia e dell’industria italiana.
Da qualche tempo riceviamo buone notizie sull’economia italiana, soprattutto nel campo dell’industria manifatturiera, delle medie imprese familiari, dell’esportazione.
Si tratta di buone notizie fondate su ragioni solide, come dirò, e che è giusto apprezzare. Sono e devono essere fonte di fiducia, compiacimento e stimolo a fare anche meglio. Ma esse non devono farci sottovalutare il fatto che il Sistema Italia, nel suo complesso sociale e politico, resta debole, attraversato da profonde malattie sociali, culturali e politiche e che la strada del risanamento di sistema resta lunga e impegnativa. Ma certamente possibile, come ci dimostrano proprio i buoni risultati raggiunti da un lato e le enormi sciocchezze della politica economica italiani degli ultimi dieci anni dall’altro.
Partiamo da alcuni dati di inquadramento generale, che traggo da una eccellente relazione tenuta il 28 maggio 2018 da Fulvio Coltorti all’Assemblea di Italia Comfidi (il maggiore Confidi italiano).
Le schede 1 e 2 illustrano che il PIL reale italiano è quasi fermo dal 2005. E ciò è la conseguenza inevitabile di un fatto molto semplice. La produttività italiana è stagnante dal 1992 con larghe fasi nelle quali è diminuita. E come scrisse Krugman: “per quanto riguarda la crescita economica, la produttività se non è tutto è quasi tutto”.
La scheda 3 illustra la diminuzione del valore aggiunto industriale in percentuale del valore aggiunto dell’Eurozona a 19.
Le schede 4 - 5 e 6 illustrano la debolezza, per usare un termine gentile, della politica economica e bancaria italiana.
Economia italiana. Le buone notizie
Ma se dai dati di sistema facciamo delle segmentazioni, incominciamo a capire qualche cosa di più delle dinamiche sottostanti i grandi aggregati. La scheda 7ci mostra come l’aggregato medie imprese abbia fatto molto meglio dei gruppi maggiori. La scheda 8 ci mostra che l’avanzo sull’estero viene totalmente dalle medie imprese e dai distretti industriali. È grazie a questo aggregato che non faremo mai la fine della Grecia o dell’Argentina, economie strutturalmente deboli, anche se le autorità di governo e bancarie italiane hanno fatto di tutto per farci sprofondare in quella direzione, anche con il loro atteggiamento totalmente servile verso i diktat dell’UE.
Questa grande e importante verità viene confermata dall’eccellente indagine sulle medie imprese italiane che, da oltre dieci anni, viene condotta da Mediobanca e Unioncamere e i cui risultati sono riassunti nella scheda 9.
Le imprese dell’agro-alimentare si collocano tra i protagonisti di questo grande aggregato, le medie imprese familiari di qualità e i distretti, che, a buon diritto, possiamo conclamare l’Aggregato Salva Italia. Diffondendo il gusto e lo stile italiano dell’alimentazione in tutto il mondo, come parte di un più generale sforzo di diffusione del Made in Italy e della qualità italiana, esse ci permettono semplicemente di mangiare e di pagare la bolletta energetica.
Dal 2007 al 2017 il nostro paese è passato da un deficit annuale totale di 8.6 miliardi di euro ad un surplus di 249 miliardi. Nel 2007 l’Italia figurava al ventesimo posto nella classifica della bilancia commerciale dei paesi dell’Unione Europea, nel 2017 è salita al terzo posto, superata soltanto da Germania e Paesi Bassi. È vero che al miglioramento del surplus contribuisce la diminuzione del deficit energetico passato da 46.3 a 32.9 miliardi e l’abbassamento della curva delle importazioni a causa della recessione. Ma il grande ricupero è dovuto soprattutto al grande slancio dell’export passato da 364.7 miliardi del 2007 ai 448.1 miliardi del 2017, un incremento di 83,4 miliardi, vicino al 30%. In questa grande crescita spiccano le performance della chimica farmaceutica e dell’agro-alimentare. Nel primo settore eravamo ultimi nella classifica UE per saldo commerciale nel 2007 con un deficit di 10.8 miliardi. Nel 2017 abbiamo dimezzato il deficit (scendendo a 4.3 miliardi) e siamo risaliti al ventiduesimo posto, soprattutto grazie alla crescita dell’export farmaceutico e di specialità chimiche soprattutto nella cosmesi. Nell’agro-alimentare, nel 2007 l’Italia figurava terzultima nella graduatoria UE per saldo alimentare con l’estero. “Nel 2017 siamo approdati a un leggero attivo (145 miliardi) risalendo all’undicesimo posto grazie ai vini e spumanti e a prodotti industriali a forte e qualificata trasformazione industriale tipo pasta, dolci, vegetali lavorati, che hanno più che compensato lo storico deficit per le materie prime agricole e i prodotti a debole trasformazione, tipo cereali, carni fresche, latte, etc.” (Marco Fortis).
Cinque storie importanti
Mi dispiace di aver appesantito la mia esposizione con dei dati. Ma questi dati ci raccontano cinque storie importanti.
La prima storia che ci raccontano è che la media impresa italiana è una grande realtà che, in questi dieci anni di crisi, ha saputo lavorare seriamente, accanitamente, intelligentemente, profondamente, per conquistare una degna posizione nel nuovo mondo emerso dagli sconvolgimenti geo-politici.
La seconda storia che ci raccontano è che l’Italia manifatturiera è competitiva. È l’Italia come sistema che non è competitiva (con la sua PA, con la sua giustizia, i suoi sperperi di finanza pubblica, la sua classe politica corrotta ed incompetente, con il suo assistenzialismo politico, la sua malavita organizzata, con tutto quello che, nel 2008 chiamai le piaghe bibliche italiane).
La terza storia che ci raccontano è che la sconfitta storica della grande impresa italiana non è imputabile né ad una presunta incapacità atavica di fare grande impresa perché tante volte abbiamo dimostrato di sapere fare bene grande impresa come con l’Olivetti, né alla crisi che ci ha colpito tutti, ma alla pochezza della leadership imprenditoriale italiana, come analizzò e preconizzò, con grande lucidità, Marco Borsa nel suo libro del1992. “Capitani di sventura. Pirelli, De Benedetti, Agnelli, Gardini, Romiti, Feruzzi: perché rischiano di farci perdere la sfida degli anni ‘90”, un libro che, oggi, ci appare profetico. È per questo, che appena uscì fu fatto sparire dalla circolazione da alcuni dei capitani di sventura.
La quarta storia che ci raccontano è che la performance della media impresa, negli ultimi dieci anni, ha del miracoloso. Se chiamiamo miracolo economico quello della ricostruzione postbellica (non fu miracolo, ma solo lavoro di qualità e accanito, come l’Italia che lavora sa sempre fare; ma quella etichetta un po’ esagerata ci stava bene) possiamo, a maggior ragione, chiamare miracolo industriale anche questa ricostruzione dell’Italia manifatturiera ed esportatrice. Tanto più che allora la politica economica e della Banca d’Italia era positiva ed aiutava le imprese, mentre negli ultimi dieci anni la politica economica e della Banca d’Italia ha fatto tutto il possibile per impedire e possibilmente affondare la ricostruzione dell’Italia manifatturiera.
La quinta storia è che lo straordinario exploit dell’industria agro-alimentare non deve essere visto isolatamente ma come componente essenziale del Made in Italy, inteso non come brand ma come filosofia di vivere e di intendere la vita, come Prezzolini illustrò ai suoi allievi americani alla Columbia University nel 1948 chiamandola: civiltà italiana. Disse Prezzolini: lo Stato unitario italiano ha fallito ma è una piccola parentesi di una lunga storia, quella della civiltà italiana che ha mille anni di vita, è universale ed è basata su valori del buon vivere:
“La fama dell’Italia è oggi, grande nel mondo per la seduzione del suo sistema di vita, che non è codificato in nessun libro ed aspetta uno scrittore che lo raccolga dagli esempi di molte vite, antiche e contemporanee. Chi ha formato questa fama? Non i retori, non i letterati, non gli uomini politici, non certo i generali e gli ammiragli, non gli amministratori e nemmeno i preti cattolici, che pur certamente son un prodotto genuino della civiltà italiana. Se mai la fama si deve ai narratori, ai poeti, ai pittori e scultori ed architetti, agli attori, ai cuochi ed ai sarti, agli sportivi, ai sommozzatori ed agli aviatori, alle donne innamorate ed agli amanti italiani, alle belle donne del cinematografo ed ai guaglioni della strada... La massa crescente dei turisti rappresenta una votazione internazionale in favore degli Italiani. Nutrono quelli per gl’Italiani un certo amore senza stima, ricambiato da parte degli Italiani con una esagerata valutazione accompagnata da un non soverchio amore.
L’Italia del Risorgimento, la parentesi unitaria di questo disunito paese, appare finita. Ma l’Italia universale - quella che importa di più - continua ad occupar e preoccupar le nostre menti per opera dei singoli individui italiani, sempre mirabili nel cavarsi d’imbarazzo e nel correggere le situazioni penose e gravose nelle quali i loro capitani li conducono”.
Questa lettura sarà ripresa in uno scritto del 1955 dedicato agli anni della ricostruzione italiana dal rappresentante a Roma dell’ECA (Economie Cooperation Administration), l’americano Vincent Barrett, ricordato da Paolo Baffi in uno dei suoi scritti più belli: “Via Nazionale e gli economisti stranieri 1944-1953”, che disse:
“Un fatto di grande rilievo del dopoguerra è sicuramente la grande vitalità ed energia del popolo italiano nello sforzo di ricostruzione. I viaggiatori attenti nell’Italia postbellica hanno percepito l’entusiasmo e lo spirito di una società giovane, creativa ed esuberante, che emergeva tra i resti di vestigia e istituzioni delle civiltà antiche e feudali. Il germogliare di giovanile vigore e creatività nell’ambito di un contesto reale di glorie passate costituisce uno degli aspetti di vero fascino dell’Italia moderna. Nell’arco di pochi anni dalla fine della guerra gli artisti, stilisti e imprenditori italiani di spicco si sono creati una reputazione a livello mondiale per la freschezza delle idee, la forza innovativa, la volontà di aprire nuove vie. Nella edilizia residenziale, nei modelli di automobili, nella produzione e nel commercio di macchine per cucire, di motorette, di macchine per scrivere e di attrezzature peruffici, nella moda femminile, nella produzione di filmimpegnati ·:e in questi e in molti altri campi, la nuava Italia appare come una nazione con una forte impronta giovanile e un crescente entusiasmo per la vita. Non è un caso che siano le giovani donne degli altri paesi a essere particolarmente attratte da acconciature e vestiti di creazione italiana o che siano gli uomini più giovani a rispondere alle linee delle automobili sportive italiane con tale calore che i loro modelli vengono imitati su larga scala”.
Facciamo ora un salto di trent’anni, al 1996. La più prestigiosa e diffusa rivista giapponese, seguita da milioni di lettori (Nikkei Business), dedica quasi interamente il numero di luglio 1996 agli imprenditori e ai lavoratori italiani delle imprese minori del Nord Italia. A questi è anche dedicata la bella copertina. Con una indagine sul campo che durò vari mesi il team di Nikkei Business (che ebbi occasione di incontrare) aveva il compito di capire e far capire ai giapponesi il segreto della straordinaria fioritura come numero e qualità delle imprese minori del Nord Italia. Il messaggio che l’inchiesta trasmette al mondo imprenditoriale giapponese è un messaggio più che positivo sull’organizzazione imprenditoriale italiana e sulle capacità imprenditoriali e manageriali delle sue imprese medie e familiari. Questo messaggio è sintetizzato nel titolo di uno degli articoli principali: “Impariamo dall’Italia”. I punti di forza che emergono da questo rapporto sono quelli dei quali anche da noi si sta prendendo, sia pur faticosamente, coscienza: un imprenditoria diffusa e competente, prevalentemente venuta dal basso, che ha radici profonde nella storia stessa del paese; la capacità di combinare questa imprenditorialità diffusa con livelli tecnologici assai avanzati, attraverso sistemi a rete, aziende di riferimento (c.d. aziende organizzatrici) la cooperazione nella competizione; la straordinaria velocità di adattamento e cambiamento; la specializzazione spinta; la “scienza del management pratico” che si apprende da giovani nell’impresa familiare; l’orgoglio dell’indipendenza; le tradizionali capacità artigianali diventate industria sofisticata; una qualità elevata. È interessante e gratificante vedere che viene proprio dal paese che più di ogni altro ha teorizzato il sistema del Total Quality Management, un forte riconoscimento della “qualità elevata” dei prodotti italiani. Un altro articolo è, infatti, intitolato: “Ricercare la qualità secondo il modello latino sarà la tendenza dominante della prossima generazione”. In esso si legge tra l’altro: “Se si chiede il segreto del successo degli imprenditori - manager del Nord Italia, la risposta unanime è la qualità elevata... Il senso di questa qualità non è solamente la rarità dei guasti o una fabbricazione precisa. Nelle aziende italiane è forte la tendenza a sviluppare e fabbricare prodotti che procurano piacere a utilizzarli e possederli... Sia in Giappone che in America ci si domanda se non si trovi in Nord Italia il modello originario dei metodi di gestione della qualità, che ricopriranno un ruolo dominante nella prossima epoca”.
Questo quadro lusinghiero e non superficiale cerca di andare alle radici storiche e sociologiche di questa eccellenza, rintracciandole nel lavoro artigianale ed agricolo, nel profondo coinvolgimento dei dipendenti, nella diffusione del sapere pratico, dell’orgoglio individuale di un lavoro ben fatto diffuso in tutta l’impresa, nei talenti individuali. Se questa è la caratteristica di fondo del nostro sviluppo - e lo è- noi dobbiamo difenderla, proteggerla. farla crescere, esaltarla. Per difendere noi stessi e ciò che rappresentiamo e guidiamo che non è poco: è il saper fare produttivo del popolo italiano “depositato” nelle imprese e frutto di una grande cultura universale.
Questa lettura profonda e culturale delle radici dell’eccellenza nel Made in Italy, chiarissima nel rapporto NIKKEI BUSINESS del 1996, riappare nella stessa chiave in un recentissimo (2017) film “Unicità ed eccellenza” di Alexander Kookerbeck per la Fondazione Edison.
Avevamo la luna
Abbiamo dunque un retaggio del saper fare che è antico, dalle radici robustissime, che copre un ampio spicchio di attività e che è ancora attuale Ma attenzione: non è una rendita! Se c’è voluto tanto a costruirlo ci vuole poco a distruggerlo od almeno a soffocarlo. È come un bosco. Per far crescere un bel bosco ci vogliono almeno 20 anni. Ma per segarlo con delle efficienti motoseghe ci vuole pochissimo. Come ho già detto è successo tante volte nella nostra storia, come spiega limpidamente il bellissimo e importantissimo libro di Michele Mezza intitolato: “Avevamo la luna”. E sta succedendo anche oggi da parte di ampi settori dell’establishment che sembrano aver dichiarato guerra a tutto ciò che di buono, che di nostro, abbiamo in Italia. Sembra che si divertano a bombardare e distruggere tutto ciò che ha fatto grande il nostro Paese ed in primo luogo l’imprenditoria diffusa e le banche di territorio.
“L’8 novembre 1959 Adriano Olivetti, anzi l’onorevole Adriano Olivetti, presenta al capo dello Stato Giovanni Granchi, nella sede di rappresentanza di Milano (della Olivetti), in via Clerici, il nuovo calcolatore Elea, affermando:
L’elettronica non solo ha reso possibile l’impiego dell’energia atomica e l’inizio dell’era spaziale, ma attraverso la moltiplicazione di sempre più complessi ed esatti apparati di automazione, sta avviando l’uomo verso una nuova condizione di libertà e di conquiste. Sottratto alla più faticosa routine, dotato di strumenti di previsione, di elaborazione e di coordinamento, prima inimmaginabili, il responsabile di qualsiasi attività tecnica, produttiva, scientifica, può ora proporsi nuove, amplissime prospettive. La conoscenza sicura, istantanea e praticamente illimitata dei dati, l’immediata elaborazione degli stessi, la verifica delle più varie e complesse ipotesi, consentono oggi di raggiungere obbiettivi teorici e pratici che fino a ieri sarebbe stato assurdo proporsi, e di dirigere e reggere con visione netta e lontana le attività più diverse.... In questo senso la creazione del calcolatore Elea, e la sua produzione realizzata industrialmente dalla nostra Società, ci sembra possano recare un contributo reale non soltanto allo sviluppo tecnologico e all’equipaggiamento strumentale e organizzativo del Paese, ma anche al suo immancabile progresso sociale e umano.... Con la realizzazione dell’Elea la nostra Società non estende semplicemente la sua tradizionale produzione a un nuovo settore di vastissime possibilità, ma tocca una meta in cui direttamente si invera quello che penso sia l’inalienabile, più alto fine che un’industria deve porsi, di operare cioè non soltanto per l’affermazione del proprio nome e del proprio lavoro, ma per il progresso comune - economico, sociale, etico - della collettività”.
Siamo lontani almeno quindici anni dall’inizio dell’epopea della Silicon Valley, e dalle fondanti elaborazione teoriche di Ithiel de Sola Pool sulle Tecnologie di libertà (1995), ma in questo passaggio Olivetti, profeticamente, introduce i due elementi costitutivi della futura rivoluzione informatica: la libertà come motore del processo industriale e la fuoriuscita dai vincoli coercitivi della fabbrica fordista come conclusione del processo tecnologico. Sono i due elementi che caratterizzano l’intera fase microelettronica, che scompone radicalmente il quadro socio-tecnologico tipico della fabbrica fordista, e con esso anche lo scenario abituale per la sinistra classista. Sono proprio i due elementi che sfuggono alla politica italiana, e in particolare alla cultura della sinistra, che ancora oggi con sofferenza constata il superamento del paradigma fordista” .(1)
L’Italia, grazie ad Adriano Olivetti e alla Olivetti, all’Università di Pisa, al Politecnico di Milano, ma anche ad alcuni centri di ricerca della Marina, nel 1959, è almeno dieci anni avanti nell’elettronica rispetto al Giappone, un campo di attività assolutamente congeniale al nostro paese come al Giappone stesso.
Ma pochi anni dopo la morte prematura di Adriano Olivetti, avvenuta nel 1960, il 30 aprile 1964 Vittorio Valletta, CEO della Fiat, e uno dei cinque-sei “governatori” dell’Italia, nella relazione al bilancio Fiat, dichiara sulla Olivetti: “La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare, senza grosse difficoltà, il momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi inserita nel settore elettronico per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda italiana potrà affrontare.”
Commenta Michele Mezza: “Una lapide più che un’opinione per il futuro della Olivetti. Valletta anche semanticamente sceglie i vocaboli in modo da dare tutti i messaggi necessari: nell’elettronica [‘Olivetti si è “inserita”, intromessa, indebitamente mescolata con i più grandi. Questo è il peccato originale che bisogna sanare.”
L’Italia non deve fare elettronica, come non deve fare nucleare (persecuzione giudiziaria di Ippolito), come non deve pretendere spazi di autonomia nella politica energetica (morte violenta di Mattei). Così pensa l’establishment italiano nel 1964. Nel 1975 uno di loro, l’ex consigliere delegato della Comit, Bombieri, ormai in pensione, in un’intervista ad Alberto Mazzuca, in occasione della morte di Roberto Olivetti, dirà: “Noi non avevamo capito niente”. Aveva ragione.
È così che nel giro di tre anni dal 1992 al 1994 l’Italia del miracolo sfiorato è stata stoppata e retrocessa.
La retrocessione è durata a lungo e dura tuttora, accentuata non certo creata dalla crisi economica mondiale del 2007. Ma anche questa volta, testardamente abbiamo ricominciato da capo. Mentre l’industria del vecchio establishment cadeva a pezzi o diventava preda di gruppi internazionali, è emersa una nuova struttura industriale, contemporanea nella testa, nell’operatività e nella tecnologia, quella delle medie imprese familiari che operano sui mercati internazionali e che, con felice neologismo, è stata chiamata da Fulvio Coltorti: “Quarto capitalismo”, capace di fronteggiare le nuove sfide e cogliere le nuove opportunità. Mentre la piccola e piccolissima impresa soffre ma resiste e prepara i nuovi candidati ad un nuovo ciclo di crescita. Una volta Adriano De Maio, allora rettore del Politecnico di Milano, in risposta ad una mia affermazione che si riferiva agli anni ‘60: abbiamo perso il treno, mi disse: “ricordati che nuovi treni continuano a passare”. È vero. Un nuovo meraviglioso treno sta passando davanti a noi. Non perdiamolo un’altra volta: studiamo, ascoltiamo, impariamo, sperimentiamo con grande determinazione anche se con grande umiltà, non facciamoci spaventare dal “management by terror”, e soprattutto ribelliamoci a chi vuol tenere l’Italia inchiodata nelle divisioni inferiori, come è successo negli anni’60, affermando che le nostre imprese sono troppo piccole per fare bene.
Le nuove tecnologie e metodologie organizzative che riassumiamo nell’espressione: economia digitale sono (come era l’elettronica nel 1959, nelle profetiche parole di Adriano Olivetti e come era anche nel 1964, al tempo dell’epitaffio di Valletta), congeniali alla cultura e al saper fare italiano. Esse sono infatti liberatorie di nuove energie e capacità creative e possono offrirci nuove e impensabili opportunità.
Ma per non perdere il nuovo treno dobbiamo essere molto più preparati, più uniti, più coraggiosi, più esperti, più consapevoli che i nostri mali non stanno in Germania o nell’euro come ci raccontano i demagoghi. Sono nei nostri palazzi e non solo nei palazzi politici, ma anche nei nostri palazzi imprenditoriali e universitari.
I capitani di sventura, retrocessione e rinascita
La più grande industria italiana e la leadership industriale italiana ha perso una grande guerra. Questa guerra non è stata persa per fattori geopolitici ma da certi uomini, per certe idee, per certi comportamenti, per certi valori o disvalori. Come ha scritto Marco Borsa nel già citato: “Capitani di sventura. Pirelli, De Benedetti, Agnelli, Gardini, Romiti, Ferruzzi: perché rischiano di farci perdere la sfida degli anni ‘90” (era il momento in cui questi signori erano al vertice del potere e della ricchezza). In questo libro, Borsa spiega, con grande chiarezza, perché i comportamenti, il pensiero, il modo di valutare le cose di questi grandi industriali italiani non era adatto ad affrontare le sfide nuove del mondo che si stava delineando. Infatti sono tutti andati male, magari non personalmente ma come imprese: gli Agnelli se la sono cavata ma la Fiat era sull’orlo del fallimento, è stata salvata dalle banche; Ferruzzi è stato spazzato via; Gardini è stato spazzato via: Pirelli è stata venduta alle partecipazioni statali cinesi, altri sono personalmente diventati ricchissimi ma le loro imprese (compresa la Olivetti) sono finite. Quindi, è un mondo che non ha saputo guidare l’industria italiana, non per ragioni geopolitiche ma per mancanza di leadership, per mancanza di moralità e di intelligenza.
Tutte le crisi di queste nostre grandi aziende sono crisi in house, calate nella realtà di questi gruppi. Ho già parlato di Olivetti. E la crisi della Pirelli inizia quando fanno un’acquisizione avventurosa e non riuscita, la Continental in Germania, senza predisporre in modo ordinato le modalità dell’esecuzione, senza avere le forze necessarie, senza assicurarsi le necessarie alleanze, e prendono una bastonata gigantesca. La Pirelli cade li. E la caduta in mano francese della telefonia è una mescolanza tra cattiva politica e imprenditori ·speculatori. Gardini eredita da Ferruzzi un patrimonio enorme, in gran parte liquido, e lo sperpera in pochi anni. Era uno che, parlando di suo figlio di 21 anni, disse pubblicamente: “mio figlio non ha studiato molto ma ha giocato molto a poker”. E lo fece presidente della holding, capo di tutto questo impero che Ferruzzi gli aveva lasciato. Io stavo facendo un discorso in Assolombarda la mattina in cui venne fuori la notizia che il 21enne Gardini era diventato presidente della holding: dissi che quello era il segnale chela fine del gruppo era segnata.
E quando si è trattato di affrontare grandi crisi industriali vere come quelle di Alitalia e dell’ILVA di Taranto, non siamo stati capaci di fare ristrutturazioni serie e ci affidiamo a stranieri nella speranza che siano loro a cavarci dai guai. In entrambi i casi abbiamo lasciato sfasciare queste grandi imprese in modo irresponsabile e adesso è necessario venderle e, per venderle magari scegliamo l’alternativa peggiore, come nel caso dell’ILVA. Come abbiamo lasciato distruggere le ricche banche venete e il Monte dei Paschi da una guida bancaria inerte, incompetente e inaccettabile.
Ma anche dove non ci sono crisi ma aziende che vanno bene la resa del vecchio capitalismo italiano è sempre più evidente. Tanto del buono che è rimasto, è diventato tedesco (Italcementi) o cinese (Pirelli) o francese o altro (Loro Piana, Bulgari, Valentino, Pinarello Bike, Gucci, Aceto balsamico di Modena, Pininfarina, Brunello di Montalcino e tante altre). Ed ora la piazza italiana è battuta dai gruppi cinesi con enormi capitali con la parola d’ordine di acquistare brand e mercato in ogni settore.
Il Quarto capitalismo
Si è chiuso, con una grande sconfitta, iniziata quando all’inizio degli anni ‘60 abbiamo perso la luna, un ciclo importante ma nel frattempo si sviluppava un nuovo capitalismo, un nuovo mondo imprenditoriale che, nell’insieme, ha raggiunto dimensioni significative che, come dicevo, è stato chiamato: Quarto capitalismo. Dopo il capitalismo di Stato, dopo il capitalismo assistenziale, dopo il capitalismo dei distretti è emerso il capitalismo delle medie imprese familiari impegnate con successo sui mercati internazionali.
Però, l’eccellenza nei fattori interni delle imprese, nel lavorare bene all’interno, non è sufficiente. Molte delle nostre imprese cadono su temi non del saper fare le cose ma su temi del governo dell’impresa, quella che oggi chiamiamo “governance”, e nella strategia d’impresa. Perché i nostri imprenditori, che hanno inventato gli elettrodomestici di massa, sono stati spazzati via quasi tutti? Perché non sapevano governare la propria casa, non sapevano gestire i rapporti tra la famiglia e l’impresa, tra i fratelli e i nipoti. Sempre lì si cade. Quasi mai sul prodotto, sul saper fare.
Perché i francesi stanno comprando, una dopo l’altra, le nostre case di moda? Perché hanno comprato Loro Piana? Era in una fase magica però è diventata di Louis Vuitton, un gruppo che non sa di tessile e di moda più e meglio dei nostri, ma sa come si governano le imprese, quando crescono oltre un certo limite. Non basta essere bravi nelle cose, bisogna essere bravi nella “governance” e nell’uso intelligente della strumentazione a disposizione.
Altro punto importantissimo, spesso trascurato dagli imprenditori, è l’importanza della solidità patrimoniale e finanziaria dell’impresa e relativa strumentazione. Questa solidità è un’assicurazione contro i rischi, contro gli attacchi, è una garanzia della propria libertà. Questi errori di sottovalutazione sono stati fatti da fior di personaggi. Ad Adriano Olivetti, che è stato uno dei migliori imprenditori italiani, dava fastidio la finanza, culturalmente, e quindi non aveva la consapevolezza che la solidità finanziaria è garanzia di libertà e indipendenza, aiuta ad affrontare il cigno nero. Arrivano sempre i cigni neri e non si sa mai da dove vengono e bisogna essere preparati. Quando è morto Adriano Olivetti l’industria e la ricerca del Gruppo erano fortissime, ma la struttura patrimoniale e finanziaria dell’impresa era debole, la struttura familiare non era ben equilibrata e queste sono state alcune delle concause per cui la Olivetti ha perso la sua indipendenza ed è stata poi massacrata.
Attenzione: la solidità patrimoniale e finanziaria non vuol dire tenere il proprio gruzzoletto nella cassaforte e ricontarlo ogni mattina; vuol dire anche avere un livello di indebitamento elevato ma sostenibile e programmato per dei fini chiari e utili. Un’azienda, che vuole e deve crescere, per andare avanti non può non avere nel quadrante della strumentazione anche quello delle acquisizioni, perché si cresce per linee interne ma anche per acquisizioni.
La politica di accrescere per acquisizioni è molto importante ma molto difficile e rischiosa, quindi dipende da come la si fa, con che persone e con quali strumenti, Vi faccio due esempi estremi.
Parmalat ha avuto un grande sviluppo per acquisizioni, giustamente fallito perché erano acquisizioni fatte male, pensate male, a ogni acquisizione fatta c’era il sospetto che ci fosse qualcuno che ci mangiava la tangente, compreso il padrone.
La Campari, gruppo italiano eccellente che negli ultimi venti anni ha fatto tantissime acquisizioni tutte meditate, serie, gestite bene, è entrata tra i leader mondiali in un campo molto difficile. Ha imparato ad acquistare ma anche a disinvestire, come si deve fare in una politica di acquisizioni. Quindi, quando dico solidità finanziaria non significa tenersi stretto il gruzzoletto, perché esso perde inevitabilmente valore. La moneta non perde di valore in funzione dell’inflazione, come molti pensano, ma in funzione del movimento dei valori nel settore in cui si opera: se è capitale destinato allo sviluppo imprenditoriale, deve essere utilizzato per lo sviluppo imprenditoriale; altrimenti necessariamente si svaluta perché il mondo cresce e le occasioni perdute sono acquisite da altri.
Aziende familiari italiane nell’agroalimentare: siamo solo all’inizio
Il titolo di questo paragrafo era una delle alternative che avevo ipotizzato come titolo della mia relazione. Gli organizzatori hanno preferito il titolo adottato: “Aziende familiari italiane, tra individualità e solidarietà di filiera e di sistema”. Probabilmente il titolo scelto è più appropriato. Ma sono certo che gli organizzatori non saranno dispiaciuti se io adotterò l’altra opzione: “siamo solo all’inizio” per il paragrafo conclusivo. È un titolo ed un paragrafo che ci proietta, infatti, verso il futuro.
La crescita dell’industria agroalimentare italiana e delle sue esportazioni negli ultimi quindici anni è certamente spettacolare se la vediamo non singolarmente ma come snodo importantissimo del Made in Italy e dello stile italiano. Se poi la proiettiamo in stretto collegamento da un lato con lo sviluppo internazionale della ristorazione italiana e dall’altro con i suoi stretti collegamento con un’agricoltura sempre più specializzata, tecnologica, scientifica e con una crescente presenza di imprenditoria giovane e femminile, non possiamo nutrire dubbi sul fatto che siamo solo agli inizi di uno sviluppo del quale non è facile vedere i limiti ultimi. Se non faremo troppi sbagli e se sapremo coniugare l’indispensabile individualismo che è elemento di forza della media impresa italiana con l’utilità di agire uniti, ovunque sia possibile e conveniente, l’agro-alimentare italiano diventerà qualche cosa di più importante del semplice Made in Italy. Diventerà testimone e componente essenziale dello stile di vita italiano, testimone strategico dello sviluppo della civiltà italiana come la insegnava Prezzolini ai suoi allievi americani della Columbia University nel 1948.
Mi avvio così alla conclusione con qualche riflessione finale, tutte ispirate a cosa bisogna fare per non essere risucchiati in quella fase di decadenza (non parlo di recessione, ma di decadenza che è un’altra cosa, molto più seria), che sistematicamente caratterizza la società italiana. Per non fare la fine dei capitani di sventura degli anni ‘90. Per non perdere, un’altra volta, la luna.
- Bisogna cancellare dalla lavagna le sciocchezze che sull’impresa ha teorizzato Milton Friedman ed i suoi epigoni. L’impresa deve fare certamente profitto, ma non può fermarsi lì. Deve fare sviluppo ed è questo a legittimare il suo profitto. Deve fare cultura. Deve essere parte essenziale del processo di civilizzazione. E questo vale ancora di più per l’industria agro-alimentare nella quale confluiscono tanta storia, tanti fattori, tanto stile di vita della civiltà italiana, nata oltre mille anni fa nei nostri comuni. In una ipotetica Olimpiade cui partecipi la media impresa italiana del quarto capitalismo, l’agro-alimentare sarebbe il naturale porta bandiera.
- L’industria agro-alimentare opera sul mercato e dal mercato trae la sua forza. Essa è quindi intrinsecamente interessata ad un mercato onesto, libero, trasparente. È interessata ad un modello di impresa e ad un sistema che si muovano su un piano di corretta moralità imprenditoriale e di piena legalità. Il mercato onesto va difeso anche contro chi, come la Confindustria, ha portato alla carica di vice-presidente e, in modo irridente, di responsabile della legalità uno pseudo imprenditore come Antonello Montante, del quale in Sicilia tutte le persone informate conoscevano gli oscuri maneggi; contro i politici che della corruzione hanno fatto un instrumentum regni; contro chi manipola i principi della UE per far passare regolamenti dannosi al mercato e alla sua trasparenza e ai consumatori; ed anche contro quei paesi che fanno dumping industriale e commerciale. Abbiamo un esempio limpido di questa tematica. L’industria farmaceutica italiana è stata insieme all’agro-alimentare quella che ha segnato un grande risultato nei recenti sviluppi dell’export. Qualche decina di anni fa componenti importanti dell’industria farmaceutica italiana avevano adottato la strategia dello sviluppo attraverso la corruzione. Il risultato fu che l’industria farmaceutica italiana stava letteralmente sparendo di scena e nessuno credeva più che l’Italia potesse avere un’industria farmaceutica sana. Da quando l’industria è stata forzata sulla retta via dalla magistratura e da Garattini, ha segnato una grande rinascita ed è oggi una bella realtà imprenditoriale, anche sul piano internazionale.
- L’industria agro-alimentare deve trovare nella collaborazione di filiere e di sistema una delle sue maggiori spinte. Non credo di dover spendere troppe parole per illustrare il legame stretto tra successo dell’industria agro-alimentare e quello della ristorazione italiana che, a sua volta, è sempre più legato allo sviluppo turistico, anche perché questo legame è in atto e testimoniato da tante ottime iniziative comuni. Meno evidente è il legame tra industria agro-alimentare di successo e agricoltura, un’agricoltura che sta vivendo una fase di ammodernamento e di ringiovanimento straordinario e che può e deve diventare un altro punto di forza dell’industria agro-alimentare (allegato un mio commento di quasi venti anni fa). Anche qui ho un buon esempio. L’industria dell’abbigliamento e della moda italiana è stata ed è ancora oggi uno dei settori di maggior successo dell’industria italiana. Eppure, chi conosce il settore sa che, nel settore lusso, i veri vincitori sono i francesi che, tra l’altro, controllano tante imprese italiane di alto livello. Uno dei fattori distintivi tra imprese italiane e francesi dell’abbigliamento è che le prime hanno spesso ignorato il grande valore della filiera a monte dove l’Italia ha una delle industrie tessili migliori del mondo che ha rischiato di scomparire, mentre i francesi hanno molto apprezzato tale filiera italiana acquistando alcuni dei migliori protagonisti della stessa. Un altro esempio importante è quello del settore del mobile, che ha conservato la sua struttura basata su tante imprese di non grandi dimensioni, flessibili, creative, agili, ma al contempo ha saputo dar vita ad attività comuni basate su una solidarietà di settore fortissima ed esemplare, che ha permesso grandi successi sul piano globale.
- L’esperienza ci insegna che accanto a solidarietà di filiera e di settore, per resistere alle campagne acquisti dei grandi gruppi internazionali, sono necessarie alcune aziende forti. Non ho usato la parola grandi ma quella più pregnante di aziende forti. Tali sono quelle che, pur senza correre dietro alle grandi dimensioni fine a sé stesse, hanno raggiunto una dimensione competitiva per il loro segmento. Ma sono cresciute conservando una forte identità, e sono dunque forti nella governance, nei rapporti famiglia impresa, nei rapporti azionisti management, nel rapporto reciproco con il loro territorio, nella cultura aziendale, nella volontà di continuità nel tempo, nella solidità patrimoniale e finanziaria. Tutto ciò richiede che si dedichi anche a quei temi un’attenzione intelligente non inferiore a quella che si dedica al prodotto.
- Ed infine le parole d’ordine devono essere tre: internazionalizzazione, internazionalizzazione, internazionalizzazione. La media impresa italiana di qualità si trova in una fase la cui esigenza fondamentale è l’internazionalizzazione, che significa diventare un soggetto che si muove con disinvoltura nell’economia mondo. Che sa, cioè, contestualmente, creare una catena di negozi in Cina, una nuova fabbrica in India, una joint venture in Russia; sviluppare rapporti sistematici di ricerca con università in USA ed in Germania; ristrutturare acquisizioni fatte in Slovenia e Polonia; reingegnerizzare, secondo i principi della “lean production” le vecchie e appesantite filiali europee; cooperare con un gruppo di giovani creativi e un po’ matti con sede in Irlanda. Se questo è lo scenario, è evidente che i nuovi manager, oltre.al dominio tecnico degli strumenti del mestiere che si rafforzerà rapidamente con l’uso, devono avere una spiccata disponibilità e vocazione ad essere internazionali, a muoversi con disinvoltura nel mondo. Non si tratta solo di conoscere le lingue, ma di conoscere le culture, essere educati all’ascolto, essere umili e flessibili e nello stesso tempo curiosi e tenaci, disponibili ai viaggi e, insieme alla famiglia, a lunghe missioni in paesi lontani, liberi da pregiudizi e prevenzioni e avere uno spessore umano ed una base umanistica e culturale molto profonda. Insomma, essere veri e propri cittadini del mondo e amare il mondo nella sua infinita varietà e ricchezza. La civiltà italiana è sempre stata grande quando ha coltivato la sua vocazione di cultura universale. Il sovranismo, come lo si chiama ora, è sempre stato una tragedia per il nostro paese, un tradimento della sua anima.
Un altro bisogno fondamentale dell’impresa contemporanea è quello di sviluppare un rapporto positivo con il proprio territorio, con l’ambiente in senso lato non solo naturale ma sociale, civile, culturale, politico. Il conflitto tra impresa e territorio e società, che ha caratterizzato i rapporti impresa-società in tanti casi nei decenni passati, alimentato non solo da una cattiva teoria e pratica imprenditoriale, ma anche dal sindacato, da perverse culture di sinistra e da componenti forti della cultura cattolica, non ha più alcun fondamento o giustificazione.
Se è vero che il modello dell’impresa contemporanea vincente non è più l’organizzazione militare, con il dominio del potere e della gerarchia, ma l’organizzazione professionale con un grande spazio per la professionalità, la creatività e la responsabilità individuale, l’impresa team e aperta piuttosto che l’impresa caserma, se ciò è vero non abbiamo bisogno di manager guerrieri, come una cattiva tradizione americanoide continua a tramandare, ma di manager professionisti, di ricercatori di armonia, di pazienti risolutori di problemi complessi, di “natural leader of men” per usare la terminologia di Marshall e non di fuehrer o di boss. E ciò vale sia all’interno dell’impresa che nei rapporti con il proprio territorio e con l’ambiente in senso lato. I due aspetti non sono tra loro scindibili. La ricerca dell’armonia invece della guerra all’interno dell’impresa e all’esterno nei rapporti con il territorio è un capitolo essenziale della ricerca della qualità totale.
Per tutte queste ragioni mi sembra appropriato affermare che l’industria agro-alimentare italiana è solo all’inizio di una storia che può essere bellissima. Ma perché ciò avvenga bisogna avere le idee chiarissime e bisogna investire.
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1 Michele Mezza, Avevamo la luna, L’Italia del miracolo sfiorato vista cinquant’anni dopo, Donzelli editore 2013. Un libro la cui lettura è obbligatoria per chiunque voglia capire veramente come è andata con l’Italia del “miracolo scippato”.