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LE RAGIONI DELL’ACONFESSIONALITÀ NELLA TEORIA POLITICA STURZIANA

Scritto da Servire l'Italia Il .

Le ragioni

dell’aconfessionalità nella

teoria politica sturziana

 

Flavio Felice

Università del Molise

Abstract: Le ragioni dell’aconfessionalità nella teoria politica di Luigi Sturzo fanno il paio con il suo antidogmatismo nell’azione politica concreta. Aconfessionalità e antidogmatismo che si evincono scorrendo in modo rapido gli avvenimenti principali che hanno contrassegnato la sua lunga e tormentata vicenda umana. Per questa ragione l’autore ha ritenuto opportuno affrontare il tema dividendo il contributo in tre parti. Una prima nella quale si passa in rassegna alcuni delle tappe fondamentali della vita di Sturzo; una seconda parte dove si affronta il fondamento e le ragioni che stanno alla base dell’aconfessionalità politica; ed una terza conclusiva, nella quale si tenta di collocare il pensiero sturziano nel contesto del Magistero sociale della Chiesa, con particolare riferimento al tema della democrazia.


Keywords: Aconfessionalità, Libertà, Democrazia, Magistero sociale

La vita

Luigi Sturzo nasce a Caltagirone il 26 novembre 1871, a ragione dei suoi studi e per motivi di salute frequenta diversi seminari: quelli di Acireale, di Noto e di Caltagirone, dove nel 1888 si diploma. Nel 1894 è ordinato sacerdote. Si trasferisce a Roma, dove nel 1898 consegue la laurea in filosofia presso l’Università Gregoriana. Sarà proprio a Roma che matura la sua “vocazione politica”. È lo stesso Sturzo a narrarci che il giorno del Sabato Santo del 1895, nel corso della benedizione delle case nel ghetto, si rende conto della miseria in cui versano tante persone. In questa circostanza decide di dedicarsi alla questione sociale: di studiarla e di viverla, con carità cristiana e con competenza scientifica.


   Rientrato a Caltagirone, accanto all’insegnamento della filosofia, prende forma il suo impegno religioso e sociale. Fonda un comitato diocesano ed interparrocchiale, apre una sezione operaia ed una degli agricoltori, dà vita una cassa rurale per combattere l’usura ed un giornale per diffondere le idee presenti nella Rerum novarum: “La Croce di Costantino”.


   Nel 1902 guida i cattolici di Caltagirone alle elezioni amministrative, nel 1905 vince le elezioni di Caltagirone e diviene prosindaco, carica che ricoprirà fino al 1920. Nel 1905, alla vigilia di Natale, pronuncia il discorso di Caltagirone su I problemi della vita nazionale dei cattolici, piattaforma politica ed organizzativa per la costituzione di un partito di ispirazione cristiana che, superando il non expedit, faccia rientrare i cattolici sulla scena della politica nazionale. Nel 1915 è eletto vice presidente dell’Associazione Nazionale Comuni d’Italia.


   Il 18 gennaio 1919 si compie ciò che a molti è apparso l’evento politico più significativo dall’unità d’Italia. Dall’albergo Santa Chiara di Roma, don Sturzo lancia “l’Appello ai Liberi e Forti”, carta istitutiva del Partito Popolare Italiano: «A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà».


   L’esperienza del popolarismo sturziano rappresentò il tentativo di concepire un ordine sociale coerente con la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa. Un ordine politico ed economico ispirato al personalismo cristiano che si distingue per le risposte che è in grado di dare ai concreti problemi degli uomini. Il tratto caratteristico dell’Appello di Sturzo è caratterizzato dalla convinzione che, al processo dirigista, centralista, monopolista dello Stato, sia preferibile un corretto sistema competitivo, che tenga conto della contingenza e della limitatezza che contraddistinguono la costituzione fisica e morale della persona. Un nuovo ordine al centro del quale, in sintonia con i principi di sussidiarietà e di solidarietà, si imponga l’opera spontanea e creativa della società civile (persone, famiglie, associazioni, imprese...), capace d’accrescere le possibilità di scelta da parte dei singoli e delle associazioni, al fine di ottenere una più efficace risposta ai reali bisogni dei cittadini ed un maggior rispetto della libertà, della dignità e della responsabilità della persona. Ecco come il sacerdote di Caltagirone ricorda la fondazione del Partito Popolare: «Era mezzanotte quando ci separammo e spontaneamente [...] passando davanti la Chiesa dei santi Apostoli picchiammo alla porta: c’era l’adorazione notturna. [.] Durante quest’ora di adorazione rievocai tutta la tragedia della mia vita. Non avevo mai chiesto nulla, non cercavo nulla, ero rimasto semplice prete [.]. Accettavo la nuova carica di capo del partito popolare con la amarezza nel cuore, ma come un apostolato, come un sacrificio».


   Nell’aprile del 1923, al Congresso Nazionale di Torino del Partito Popolare, Sturzo denuncia Mussolini e il fascismo. Il duce da quel momento lo indicherà come il «nemico principale del fascismo» ed interverrà sul Cardinale Gasparri per costringere don Sturzo prima a dimettersi dal partito e poi ad abbandonare l’Italia. L’esilio di Sturzo durerà 22 anni. Passando per Parigi, Sturzo vivrà a Londra fino al settembre del 1940 e poi negli Stati Uniti d’America fino al 5 settembre 1946, quando torna in Italia sbarcando a Napoli.


   I suoi lavori più importanti, o quantomeno sistematici, di teoria politica e sociologica videro la luce durante il periodo dell’esilio. A Londra anima diversi gruppi politici di italiani fuoriusciti e di cattolici europei e nel 1936 fonda il People and Freedom Group. Scriveva Sturzo nella lettera di presentazione: «Popolo e libertà è il motto di Savonarola; popolo significa non solo la classe lavoratrice ma l’intera cittadinanza, perché tutti devono godere della libertà e partecipare al governo. Popolo significa anche democrazia, ma la democrazia senza libertà significherebbe tirannia, proprio come la libertà senza democrazia diventerebbe libertà soltanto per alcune classi privilegiate, mai dell’intero popolo». (1) Seguendo questa strategia, negli USA intreccia rapporti con Carlo Sforza, Lionello Venturi, Mario Einaudi, Gaetano Salvemini, l’amico non credente che ebbe a definire l’esule di Caltagirone “Imalaia di certezza e di volontà”.


   Al suo rientro in Italia, dopo il referendum sulla Repubblica e le elezioni per l’Assemblea Costituente, non si iscrive alla D.C., ma si dichiara “capo di un partito disciolto”. Ciononostante, con i suoi discorsi, gli articoli sui giornali, le pubblicazioni su riviste e i libri, Sturzo intraprende l’ultima sua battaglia, quella per una Costituzione maggiormente ispirata alla libertà, laica ma rispettosa dell’ispirazione cristiana nei suoi elementi fondamentali. Vale a dire, accogliendo dalla Dottrina sociale della Chiesa il principio di sussidiarietà e rielaborandolo sulla base della sua teoria sociologica: “la sociologia del concreto”, e dell’economia sociale di mercato che lo avvicinava ai teorici e ai politici tedeschi del secondo dopoguerra quali, tra gli altri, Ropke, Erhard ed Adenauer, contro ogni forma di olismo metodologico che finisce per esaltare lo Stato come una “realtà a sé stante, un’ipostasi vivente”, Sturzo difese e promosse un’articolazione socio-economica che riconosceva il primato della persona ed il ruolo fondamentale della società civile: la famiglia, i liberi corpi associativi, tra cui i partiti, i sindacati e la Chiesa. S’impegnò nella promozione della libertà d’insegnamento e della scelta educativa, per la difesa della proprietà privata, del risparmio, della libera impresa, della partecipazione del lavoratore al capitale d’impresa. Con riferimento alla libertà della scelta educativa scriveva: «“Finché la scuola in Italia non sarà libera, neppure gli italiani saranno liberi; essi saranno servi, servi dello Stato, del partito, delle organizzazioni private o pubbliche di ogni genere [...]. La scuola vera, libera, gioiosa, piena di entusiasmi giovanili, sviluppata in un ambiente adatto, con insegnanti impegnati nella nobile funzione di educatori, non può germogliare nell’atmosfera pesante creata dal monopolio burocratico statale». (2) Ciò lo porterà a scrivere pagine di grande spessore teorico ed impatto politico contro le cosiddette “tre male bestie”. Sturzo denuncia lo “statalismo”, come residuo tradizionale di marca laicista-risorgimentale e fascista e, nella nuova versione, nell’Italia del secondo dopoguerra, come via al socialismo di Stato; accusa la “partitocrazia”, come illegittima occupazione delle istituzioni da parte dei sistemi clientelari ed infine, a ‘mo di corollario, denuncia il ricorrente “abuso del denaro pubblico”, come strumento di gestione illecita del potere pubblico. Nel dicembre del 1952 viene nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.


   Con la sua opera, teorica e pratica, Sturzo è stato ed è tutt’oggi una solida guida morale all’azione politica, una guida morale all’azione pubblica improntata alla carità cristiana e all’amore per il prossimo al fine di “portare Dio nella politica”. Sturzo ha consacrato se stesso alla missione di portare un soffio di santità e di trascendenza nella vita politica ed il suo impegno non fu che il risultato di una serie di provvidenziali eventi che lo sollecitarono decisamente all’azione sociale, intesa come sviluppo coerente di quella pastorale.


   Don Sturzo muore l’8 agosto del 1959 a Roma; è oggi sepolto nella Chiesa del Santissimo Salvatore a Caltagirone e ci lascia una eredità ricchissima tanto per lo sviluppo della teoria politica e della teologia pastorale, quanto per l’azione politica vissuta come alta forma di carità cristiana: “La politica è un dovere civico, un atto di carità verso il prossimo”.

 


Aconfessionalità del progetto sturziano - fondamento e ragioni.


   Tutta la vicenda sturziana è caratterizzata dal profondo coinvolgimento nella vita civile della nazione e la fondazione del partito popolare non sarà che il punto di arrivo di un percorso umano e vocazionale durato circa vent’anni. Molte erano le spinte che premevano affinché il partito fondato da Sturzo assumesse le insegne anche semantiche dalla cattolicità. Sturzo rifugge tale esito, non senza offrire una spiegazione coerente con il suo progetto politico. Nel discorso che terrà in qualità di segretario politico al primo congresso nazionale del Partito Popolare Italiano, egli afferma che «È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione. Fin dall’inizio abbiamo escluso che la nostra insegna politica fosse la religione, ed abbiamo voluto chiaramente metterci sul terreno specifico di un partito, che ha per oggetto diretto la vita pubblica della nazione». (3)


   L’idea che Sturzo nutriva di partito era quello di un grande raggruppamento, la cui cifra politica-culturale non fosse da un lato l’identità religiosa e dall’altra neppure il populismo autarchico e irresponsabile, alla continua ricerca di una italianità nazionalistica che, ai suoi occhi, non prometteva nulla di buono in tutta Europa. Il senso dell’aconfessionalità del progetto di Sturzo lo si coglie allorquando, già esule in terra britannica, nel volume Nazionalismo e internazionalismo scriverà: «Popolo e libertà è il motto di Savonarola; popolo significa non solo la classe lavoratrice ma l’intera cittadinanza, perché tutti devono godere della libertà e partecipare al governo. Popolo significa anche democrazia, ma la democrazia senza libertà significherebbe tirannia, proprio come la libertà senza democrazia diventerebbe libertà soltanto per alcune classi privilegiate, mai dell’intero popolo».


   L’individuazione di un metodo politico liberale consente di scindere i portati positivi del liberalismo dalle sue manifestazioni storiche per incanalarli nelle varie culture politiche, delle quali può diventare un solido denominatore comune spendibile nella concreta attività politica. A dimostrarlo c’è tutta l’esperienza di Sturzo, che riconosceva al liberalismo d’aver introdotto due conquiste ormai inderogabili per la civiltà: il “metodo della libertà” e il “metodo rappresentativo”. Il primo va «inteso nel campo politico come libero gioco delle forze sociali, sia come partiti, sia come organismi economici, sia come correnti intellettuali e morali». Sicché la libertà non è mai un dato pacificamente acquisito, quanto una meta da raggiungersi nello svolgimento della storia, incarnandosi la forma della libertà nelle forme istituzionali, secondo i canoni del costituzionalismo e contro quell’onnivoro “Stato” accentratore che tenta di annichilire quanti minacciano di porre un freno ai suoi poteri: le autonomie locali e la società civile, le famiglie e le altre istituzioni, ovvero la naturale capacità aggregativa e organizzativa dei corpi intermedi.


   A garantire il pluralismo è allora deputato il metodo rappresentativo: espressione della sovranità popolare nella partecipazione elettorale e legislativa alla formazione di quegli organismi tecnici e responsabili che devono esprimere il comando politico. A sua volta, l’antropologia cristiana arricchisce il senso di questa libertà e di questo potere del popolo, evitando di personificare lo “Stato” o le masse, e riferendosi piuttosto agli uomini concreti che operano nelle istituzioni, con tutto quel corollario di antiperfettismo e di contingenza, così ben approfondito a partire da Rosmini e Manzoni, per arrivare fino ai teorici dell’individualismo metodologico.


   Il riconoscimento della superiorità del metodo liberale rispetto ai rigurgiti tradizionalisti e alle spinte del populismo autarchico, nonché al triste connubio di queste due espressioni, senza cadere nella trappola indifferentista che relega l’esperienza religiosa nel privato delle coscienze, impedendole di assumere un ruolo nella piazza pubblica, è scongiurato dal seguente brano del Nostro che estrapoliamo sempre dal suo discorso al primo congresso del Partito Popolare. Sostiene Sturzo: «Sarebbe illogico da ciò dedurre che noi cadiamo nell’errore del liberalismo, che reputa la religione un semplice affare di coscienza, e cerca quindi nello stato laico un principio etico informatore della morale pubblica; anzi è questo che noi combattiamo, quando cerchiamo nella religione lo spirito vivificatore di tutta la vita individuale e collettiva; ma non possiamo trasformarci da partito politico in ordinamento di chiesa, né abbiamo diritto di parlare in nome della chiesa, né possiamo essere emanazione e dipendenza di organismi ecclesiastici, né possiamo avvalorare della forza della chiesa la nostra azione politica, sia in parlamento che fuori del parlamento, nella organizzazione e nella tattica del partito, nelle diverse attività e nelle forti battaglie, che solo in nome nostro dobbiamo e possiamo combattere, sul medesimo terreno degli altri partiti con noi in contrasto». (4)


   In questo brano emerge la cifra autentica dell’aconfessionalità del progetto politico di Sturzo. Il leader popolare propone un progetto politico aconfessionale a tutto tondo. Egli è consapevole che la rinascita dello spirito religioso nel nostro Paese sarebbe passata per il ritorno sulla scena pubblica dei cattolici organizzati in partiti, associazioni, cooperative, banche. Tuttavia, un tale attivismo si sarebbe dovuto caratterizzare per la piena assunzione del metodo politico liberale, anche per disinnescare sul nascere la pretesa simmetrica sul fronte laicista e antireligioso.


   Il fondamento teorico della sua aconfessionalità politica è tutto nel suo anti fondamentalismo politico. Si consideri quanto già detto sul metodo politico liberale in ordine alla definizione di “popolo” e di “libertà” e lo si incroci con il fatto che nella prospettiva sturziana, non vi è spazio per quel populismo contemporaneo (e nostrano) in cui il leader è convinto e pretende di incarnare il popolo, né per una nozione di popolo organicistica: l’attributo “popolare” sta ad indicare piuttosto il metodo della partecipazione alla vita civile. Per il personalista Sturzo, in sintonia anche con la visione politica liberale, solo la persona pensa, agisce, soffre e sceglie, mentre i concetti collettivi quali “stato”, “società”, “classe” non sono altro che strumenti semantici ausiliari che consentono la comunicazione, ma non rappresentano realtà terze (ipostatizzazioni) rispetto alle parti che li compongono: le ragioni delle parti (le persone) contano più delle ragioni della loro somma (gli stati, o i partiti).


   La stessa scelta di Sturzo di chiamare il proprio partito “popolare” e non “del popolo” è emblematica di come egli intendesse il ruolo del partito nel contesto democratico: come uno strumento di partecipazione. Si rifletta sul fatto che affermare che il proprio partito rappresenti “il Popolo” significa precludere una legittimità “popolare” a tutti coloro che non si riconoscono in quel partito: si può finire (e si finisce) per pretendere di rappresentare il discrimine tra “il popolo” e “il non-popolo”. Per Sturzo, al contrario, l’essere “popolare” o “democratico” è un attributo e non la sostanza. Un partito può essere popolare (cioè non elitario), democratico (ossia non autocratico), ma solo pretenziosamente può definirsi “del popolo”, ovvero “della democrazia”.


   Certo, il compito di un partito è chiaro: rappresentare delle istanze di parte, magari formulate in un programma o in una carta di valori democraticamente votata, sulle quali cercare di raggiungere il massimo consenso con il minimo sacrificio delle proprie posizioni. Ma qualora esso pretendesse di incarnare la totalità delle opzioni politiche esperibili sulla base di un principio maggioritario autoritario, cioè mal inteso, farebbe del popolo un mero instrumentum regni e non il protagonista legittimo della vita democratica, in cui il leader è figura transeunte, per quanto eccezionale o significativa.


   Se questa è la cifra della sua aconfessionalità politica, credo sia interessante riportare come Sturzo stesso descrive questo lungo percorso che ha condotto i cattolici italiani alla piena assunzione del metodo politico liberale, non senza trascurare il travaglio di un’esperienza che nel suo divenire ha registrato anche forti incomprensioni e rotture dolorose. Afferma Sturzo in una intervista pubblicata su “Il Popolo Nuovo” di Roma, il 21 ottobre 1923: «In questo periodo di elaborazione fu superata l’antica discussione sul confessionalismo delle leghe operaie e sulla loro qualifica di cattoliche, e si poté arrivare a costituire una confederazione italiana dei lavoratori (settembre 1918) senza l’indicazione della professione religiosa, che non solo ostacolava allora il riconoscimento legale, ma che impegnava con quella parola la chiesa verso una corrente sociale, che pur senza proclamare la lotta di classe, operava sul terreno della difesa e quindi anche occasionalmente della lotta di classe. Quattro mesi dopo (gennaio 1919) sorgeva il partito popolare italiano, cadevano i ruderi dell’unione elettorale cattolica di gentiloniana memoria, e cessava il non expedit; e cosi, mentre i cattolici italiani acquistavano completa libertà politica, compivano l’importantissimo atto storico di staccare ogni loro responsabilità politica dalla chiesa cattolica. Ciò non ostante la parola cattolico, nel suo significato di attività pubblica, non cessò di essere usata, o per identificare i popolari, o per indicarne un movimento interno dei cattolici dissidenti e spesso conservatori, e ultimamente per designare gli ex popolari filo-fascisti; per cui più volte 1’Osservatore Romano ha dovuto autorevolmente intervenire diffidando tutti dall’assumere questo nome come indice di partito cattolico o di coalizione politica». (5)


   A questo punto, dopo aver rappresentato la cifra teorica dell’aconfessionalità politica di Sturzo, possiamo tentare una sintesi su quanto detto finora e individuare, sebbene in modo schematico, le ragioni che lo stesso Sturzo elenca dell’insistenza, tanto da parte dei non cattolici quanto dei cattolici, nel voler attribuire la qualifica di cattolici ai vari movimenti politici. In primo luogo, sostiene il Nostro, «i popolari affermano la ispirazione cristiana del loro programma politico; e la difesa di determinati interessi religiosi come valori perenni della società, basati sulla dottrina cattolica che essi professano. Questo nesso sostanziale, che per i popolari rappresenta una concezione programmatica nel libero campo politico, per gli estranei è invece confessionalismo, e quindi fenomeno religioso nella vita politica. Ad evitare ciò il partito popolare italiano fin da principio volle insistere sulla sua natura autonoma e aconfessionale» (6). In secondo luogo, sottolinea Sturzo, «L’altra ragione è inversa; è data cioè dalla lotta, iniziata con l’avvento del fascismo, di togliere al popolarismo qualsiasi caratteristica cristiana, credendo così di ammazzare il germe della sua ragione politica» (7). E continua Sturzo: «È cura dei cattolici illuminare il pubblico, difendere le ragioni religiose, dare i loro consensi morali eseguire le direttive della chiesa stessa, che ne è la principale responsabile. Guai a convertire questi argomenti delicati in dibattito politico e, peggio, guai a costruire dei partiti su questi elementi religiosi; si falserebbe la portata dei problemi, e si creerebbe una forza politica alla dipendenza della chiesa, cioè si porterebbe la chiesa al livello dei partiti». (8)


   Sturzo propone una netta distinzione tra l’indispensabile azione culturale e moralizzatrice della vita pubblica da parte dei cattolici, attraverso gli strumenti più vari che il dinamismo della società civile è in grado di offrire, e l’azione propriamente politica che si svolge all’interno delle istituzioni rappresentative mediante lo strumento partito e che opera in quelle istituzioni nel pieno rispetto del metodo liberale. Un partito fa compromessi, stringe e rompe alleanze, talvolta si accontenta del “bene possibile”. Insomma si compromette, i suoi attivisti ci mettono la faccia, consapevoli che la loro faccia non potrà mai essere sufficientemente degna di rappresentare quei valori che tuttavia tenta di testimoniare, incarnandoli. Ecco allora che l’aconfessionalità politica non è un disimpegno morale, quanto piuttosto la matura consapevolezza che, se ammettiamo la pluralità e la ricchezza delle esperienze presenti nella società civile, necessariamente avremo bisogno di una pluralità di soggetti che operano secondo punti di vista differenti. Il partito politico è un possibile terminale dell’azione civile dei cattolici, ma non è l’unico e neppure il più significativo. Scrive a tal proposito Sturzo: «Quest’azione è impropriamente detta politica, come si potrebbe dire politica ogni attività culturale, intellettiva, scolastica, morale, che tende ad influenzare l’opinione pubblica e ad ambientare l’azione cattolica che ne dipende, non sboccano in un’attività politica, ma restano nel proprio campo di influenza morale e di difesa religiosa. Ci sboccano invece i partiti, che lottano nel campo costituzionale e che realizzano nella vita pubblica le idee che fermentano nel paese. Sta ai centri di idee e di sentimenti di sapere e potere influire efficacemente a mezzo dello studio, della scuola, della propaganda e della stampa a che gli uomini politici ed i partiti siano orientati verso il pensiero cattolico e ne sentano tutta l’importanza. Il chiamare politica questa azione superiore, eminentemente spirituale, può essere una figura retorica, ma di quelle figure che impiccioliscono, limitano, travisano un contenuto diverso e sotto vari aspetti di ordine superiore». (9)


   Un ulteriore elemento che Sturzo individua come ragione del suo progetto politico aconfessionale risulta dall’esigenza di non coinvolgere l’alto prestigio delle istituzioni ecclesiastiche nel quotidiano compromesso di cui si nutre la vita politica. Il tragitto percorso dai cattolici italiani e che li ha condotti alla piena accettazione del metodo politico liberale è stato lungo, tortuoso e non sempre coerente e conforme alla dottrina; così è stato e così sarà sempre e comunque. Sarà così anche quando i cattolici, del tutto assimilati nelle istituzioni rappresentative, e, avendo assimilato in modo definitivo le regole del gioco democratico, realizzeranno quanto sia moralmente azzardato assumersi la responsabilità quotidiana dell’azione politica. Per questa ragione, scrive Sturzo: «Il partito popolare così rese il miglior servizio alla chiesa, quando portò le masse cattoliche a partecipare alla vita della nazione, e separò dalla propria responsabilità la chiesa; la quale, al disopra della politica militante, guida le coscienze di tutti i fedeli senza distinzione di parte». (10)


   In definitiva, il progetto politico aconfessionale di Sturzo ha rappresentato ed ancor oggi rappresenta un argine concreto alla “presunzione fatale” - direbbe Hayek - di interpretare l’azione politica come fede religiosa, le cui norme sarebbero intese come dogmi e le cui istituzioni assumerebbero il rango di casa di culto. Sturzo è refrattario ad una simile deriva idolatrica e concepisce la funzione storica del Partito Popolare come antidoto alla trasformazione delle istituzioni politiche in “chiese di Stato” e delle chiese in strumento di potere delle oligarchie di “Stato”. Per realizzare questo progetto di desacralizzazione della politica, per la salvaguardia dell’autentico senso religioso, è necessario che i cattolici italiani assumano il metodo politico liberale, abbandonando anacronistici rigurgiti tradizionalistici, e che il liberalismo italiano si liberi dalle scorie idealiste e nazionaliste. È stato questo il suo capolavoro politico, l’aver mostrato ai cattolici e ai liberali del suo tempo che per un cattolico di sacro c’è solo Dio e confondere la sacralità di Dio con la contingenza umana e delle istituzioni che la persona, con la sua intelligenza, è in grado di edificare, se da un lato esprime quanto di più blasfemo un cattolico possa immaginare, dall’altro contraddice, demolendole, le fondamenta stesse dell’esperimento politico liberale: per il liberale classico l’ordine politico non è una proiezione dell’ordine celeste, bensì un manufatto, tanto più adatto all’uomo quanto più tenga in debito conto l’ignoranza e la fallibilità dell’uomo. Scrive a tal proposto Sturzo: «Però l’equivoco, che turba molti, consiste nella concezione centrale e mitica della nazione-idea, della nazione-etica, della nazione-divinità; a questo mito si sacrifica tanto la libertà dell’individuo che la libertà della chiesa: la minaccia più grave è la pretesa del fascismo di monopolizzare l’azione educativa, dai balilla alla scuola, dai fasci all’associazione combattenti, alla quale azione si vuole che il sacerdote dia il prestigio religioso, non il pensiero e la pratica del cristianesimo. Il centro di questo orientamento è il nazionalismo come etica e dogma. È questo un fenomeno della guerra, che si protrae nel dopo-guerra, e fa concepire la religione (sacrificio e purezza, amore e fraternità) come semplice servizio, non delle anime, ma della nazione, che ieri combatteva in trincea e oggi combatte all’interno. Né durante la guerra né dopo la guerra, la borghesia ieri anticlericale e oggi cattolicheggiante, ha compreso la vera missione della chiesa e le ragioni spirituali del suo contegno; per essi la chiesa è uno strumento di dominio e di conservazione». (11)


   Si comprende allora perché Sturzo proporzionalista, al rientro dal ventennale esilio, non troverà alcun imbarazzo a battersi per una riforma in senso maggioritario della legge elettorale. Si comprende anche perché Sturzo non proverà alcun imbarazzo a criticare i suoi ex amici di partito, incapaci, a suo modo di vedere, di cogliere l’elemento integrale e indivisibile della libertà, che si deve esplicare nel campo economico con una piena libertà di iniziativa. Si comprendono le sue reprimende contro il partito della Democrazia Cristiana rea, ai suoi occhi, di perpetuare tutti i vizi dell’Italietta giolittiana e fascista, alimentando le tre “male bestie” della democrazia: lo “statalismo”, la “partitocrazia” e lo “sperpero di denaro pubblico”, compromettendo il perseguimento, rispettivamente, della “libertà”, dell’“uguaglianza” e della “giustizia”. (12)

   L’aconfessionalità politica di Sturzo è la rottura definitiva con l’identificazione della politica con lo “spirito faraonico” ed esprime la rivendicazione che tale rottura è il legato più prezioso che la tradizione cattolica ha offerto alla cultura politica liberale e democratica. (13) Nella linea tracciata da Sturzo, la separazione tra Chiesa e stato è da intendersi come reciproco contributo all’avanzamento delle istituzioni democratiche. Sturzo comprende e ci offre un’analisi attenta del fatto che la lapidaria sentenza di Gesù: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” rappresenta una svolta storica decisiva che ha favorito il processo di democratizzazione e la pietra angolare delle moderne democrazie e delle economie di mercato. Con ciò, una volta per tutte ed in modo travolgente, è stato introdotto nella storia il principio che “Kàisar” non è “Kyrios” - la definitiva desacralizzazione del potere politico, la sua sottomissione al regno inviolabile della coscienza ed il rispetto per la trascendente dignità della persona umana. Per editto religioso, non è il potere politico che giudica le coscienze, bensì quest’ultime che giudicano il primo. (14)

   L’antidogmatismo politico di Sturzo, ovvero la sua aconfessionalità, lo si coglie tutto nel brano che segue: «Ma la politica non sarà né anticlericale né clericale; sarà pro o contro la libertà, pro o contro la rappresentanza popolare, pro o contro le leggi sociali, pro o contro il protezionismo economico, pro o contro l’interventismo statale, pro o contro la concezione internazionale. In questa sfera politica di attualità saranno rivalutate dalle due correnti le questioni religiose ed i rapporti fra chiesa e stato. I partiti democratici-cristiani o dei cattolici-sociali o dei popolari contribuiranno validamente, per la posizione da loro acquisita in Europa, a che le democrazie si svincolino dalle tradizioni anticlericali, ed i nazionalismi superino i tornacontismi clericali». (15)


Conclusioni

   Quanto detto in ordine al problema dell’aconfessionalità del progetto politico sturziano ci consente di riflettere sul tema attuale delle ragioni della democrazia, democrazia che nella prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa non è intesa soltanto come sistema politico, ma anche come un atteggiamento mentale ed un insieme di costumi e di consuetudini. Simili ragioni, tanto per Giovanni Paolo II quanto per Benedetto XVI, sono di carattere etico: “il postulato della democrazia”, ha scritto papa Wojtyla, è «quello di formare società di cittadini liberi che insieme perseguono il bene comune». Il bene comune più immediato, non ancora sufficiente ma indubbiamente necessario, è il riconoscimento reciproco delle regole del gioco democratico che si traducono in forme istituzionali. Opportunamente Wojtyla ha fatto notare come alla base dell’organizzazione statuale israelita non ci sia Abramo, bensì Mosè, in quanto artefice di una particolare forma di “rule of law” in senso biblico, fondato sul decalogo dato da Dio al popolo di Israele. Il rispetto di quelle dieci regole fondamentali delinea un’idea di democrazia al centro della quale troviamo un limite invalicabile posto al Legislatore. Il Legislatore, dunque, sarà soggetto alla legge - quanto di più vicino alla tradizione del rule of law, appunto - e dovrà attenersi a regole che evidenziano - per dirla con le parole della Dichiarazione d’Indipendenza (1776) delle tredici colonie americane - “verità di per se stesse evidenti, quali il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità”. (16)

   La domanda che si pone Benedetto XVI nel suo storico discorso al Bundestag di Berlino è la seguente: “Come si riconosce ciò che è giusto?” e risponde: «Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto». Ebbene, anche in questo il cristianesimo è stato rivoluzionario. Continua Benedetto: «Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto - ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio». Ed ecco che Benedetto XVI declina in termini istituzionali l’apporto del cristianesimo allo sviluppo della cultura politica democratica, liberale e di diritto che si è fatta strada, pur tra vette ed abissi, nella nostra vecchia Europa: «A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore è stata sviluppata l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma - dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico». (17)

 

   Allora, chi sostiene sotto il profilo teorico la democrazia e “la via istituzionale della carità” - anche cristianamente intese e comunque mai canonizzate - non può non sottolineare l’importanza delle regole del gioco, che per alcuni sono norme dedotte dal diritto naturale, mentre per altri sono regole convenzionali sedimentate nella storia e confermate dall’esperienza; regole convenzionali e procedure che diventano istituzioni, senza le quali non possiamo vivere caritatevolmente l’esperienza politica. Saranno proprio le istituzioni a difesa della dignità della persona - quelle che dimostreremo di saper costruire e difendere - la cifra della nostra capacità di testimoniare un’azione politica cristianamente orientata ai principi di “solidarietà”, di “poliarchia” e di “sussidiarietà”; una promo-zione ed una difesa della persona che dovranno concretizzarsi sul piano istituzionale, ricorrendo agli strumenti (partiti, sindacati, associazioni e istituzioni sociali) che noi stessi avremo saputo costruire e rendere disponibili a tutti i cittadini, a partire dalla capacità di coagulare il consenso democratico intorno alle nostre proposte politiche, battendo, di conseguenza, sul terreno della democrazia, quelle dei nostri avversari. Proposte politiche che possono esprimersi anche dall’opposizione e condurci fino all’obiezione di coscienza e a quella forma estrema di obiezione di coscienza che Padre Kolbe ci ha insegnato essere il martirio, qualora attraverso la dialettica maggioranza-minoranza non fossimo in grado, di fronte al corpo elettorale, di rendere ragione delle nostre buone ragioni.


   Se il vivere da cristiani secondo virtù non si declina nella vita civile in capacità di edificare istituzioni abili ad offrire soluzioni ai problemi dell’umana contingenza e se esso non sarà conforme al rispetto di quelle istituzioni, di quelle regole e di quelle procedure, vorrà dire che, a dispetto anche delle eventuali migliori intenzioni, staremmo agendo come pessimi cittadini e politici cristiani. Infine, le istituzioni sono lo strumento umile, ma necessario, che ci consente di ricercare quotidianamente il doveroso consenso sul legittimo dissenso, l’unica possibile definizione di azione politica democratica e poliarchica in una società libera che, nel contempo, assumendo la politica come “via indiretta della carità” ovvero “la via istituzionale della carità”, ci metta al riparo dalla tentazione del serpente di voler prendere il posto di Dio: “Eritis sicut dei cognoscentes bonum et malum”.

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([1]) L. Sturzo, Nazionalismo e internazionalismo [1946], Serie I, Vol. X, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, p. 108.

([2]) L. Sturzo, La libertà della scuola, in «Sophia», luglio 1947, oggi in Id., Scritti storico politici (1926-1949), Opera Omnia, Serie III, Vol. V, Cinque Lune, Roma, 1984, p. 220.

([3]) L. Sturzo, Costituzione, finalità e funzionamento del partito popolare italiano. Relazione del segretario politico al I congresso nazionale del partito, in Id., Il partito popolare italiano. Dall’idea al fatto (1919), Serie II, Vol. III, Edizioni di Storia e letteratura, Roma, 2003, p. 76.

([4]) L. STURZO, Costituzione, finalità e funzionamento del partito popolare italiano, cit., p. 76.

([5]) L. Sturzo, Dell’uso e dell’abuso della parola “cattolico”, in Id. Il partito popolare italiano. Popolarismo e fascismo (1924), Opera Omnia, Serie II, Vol. IV, Zanichelli, Bologna, 1956, pp. 188-189.

([6]) Ibid., p. 189.

([7]) Ibidem.

([8]) Ibid., p. 195.

([9]) Ibidem.

([10]) Ibid., p. 199.

([11]) Ibid., p. 199-200.

([12]) Cf. F. Felice, The Economy without Ethics is a Diseconomy. Luigi Sturzo, Social Market Economy and the Controversy with Giorgio La Pira, in The European Union Review, Vol. 22, n. 1-2-3, 2017, p. 79.

([13]) Cf. F. Felice, I limiti del popolo. Democrazia e autorità politica nel pensiero di Luigi Sturzo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2020.

([14]) D. Antiseri, Laicità. Le sue radici, le sue ragioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 75.

([15]) L. Sturzo, Dell’uso e dell’abuso della parola “cattolico”…, p. 201.

([16]) Cf. F. Felice, Prefazione, in K. Wojtyla, Discorsi al popolo di Dio, Rub­bettino, Soveria Mannelli, 2006, p. 269.

([17]) Benedetto XVI, Discorso di Benedetto XVI al Bundestag di Berlino, 22 settembre 2011.